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R Recensione

7/10

The Jazz Butcher

Last Of The Gentleman Adventurers

Ci fosse un premio alla carriera di artigiano del rock il mio candidato per l’edizione 2016 sarebbe senza dubbio Pat Fish, in arte The Jazz Butcher, sigla ironica a simboleggiare una non meglio precisata avversione verso la musica afroamericana e la carne. Il Nostro è sulle scene dall’anno di grazia 1984, quando, in piena temperie new wave, se ne uscì con alcuni vinili (“In Bath Of Bacon”, A Scandal In Bohemia”) che attingevano a Lou Reed e Jonathan Richman, condendo con ironia ed una sottile vena malinconica ballate chitarristiche talvolta un po’ approssimative, ma di indubbio fascino. 

Dopo 32 anni, la gloriosa sigla del “macellaio jazz” è tuttora in piena attività, sebbene qualche pezzo, come il fido alter ego chitarrista Max Eider, si sia di recente perso sulla strada, ed ha appena pubblicato questo “Last Of The Gentleman Adventurers”, prodotto in sole 1000 copie nel 2012 grazie ad un crowdfunding ed oggi ristampato in vinile dalla Fire Records. Fra i due estremi, una dozzina buona di dischi, qualcuno pienamente riuscito (“Sex And Travel”, che contiene la stupenda “Only A Rumour”, “Fischotheque), altri meno memorabili, ma tutti intrecciati con elementi di naturale fibra pop rock, con la voce stentorea del leader a traghettare emozioni e riflessioni personali e non, e le chitarre, la sua e quella di Eider, a disegnare panorami soft o più spigolosi a seconda dei momenti e degli umori.

Ritrovarlo dopo una dozzina d’anni dall’ultimo segnale discografico è un po’ come incontrare un vecchio amico col quale il discorso si è casualmente interrotto: tutto sembra facile da ricollegare e, dopo il comprensibile smarrimento iniziale, si trova la voglia di raccontarsi quella parte della propria vita che non si è vissuta insieme. Le undici tracce del vinile (ebbene sì, anche questo è un ritorno, insieme all’indispensabile versione liquida) ripercorrono gli usuali sentieri del macellaio: ballate rilassate costruite sugli intrecci di chitarre, come la title track o “Count Me Out”, qualche pezzo più movimentato, “All The Saints”, “Shame About You”, che trent’anni fa sarebbe stato un deragliante punk, il tagliante blues di “Black Raoul”, un tocco di eccentricità con il cantato in francese della jazzata “Tombè Dans Les Pommes” con l’accordion di Owen Jones. E ci sono un paio di perle per l’aggiornamento di un ideale greatest hits: stavolta si intitolano “Mercy”, una ballad con un laid back di chitarre che sembra uscito da “Coney Island Baby”, e “Shakey”, un omaggio in chiave dylaniana fra il sentito e l’ironico a Neil Young e Brian Wilson.

Si sa che con le vecchie conoscenze l’indulgenza è sempre in agguato, ma diversi ascolti il più possibile oggettivi, confermano che la mano del compositore si mantiene a livelli paragonabili ai migliori episodi del passato, ed i riscontri della ristretta ma fedelissima cerchia di “clienti” confermano lo stato di grazia dell’artigianato di Jazz Butcher. Il futuro annuncia una versione in quartetto del gruppo, con un fiatista al posto di Max Eider ed un nuovo disco annunciato a breve, “The Highest In The Land”: vale la pena di mettere in agenda un salto in macelleria.

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