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R Recensione

7/10

Tim Holehouse

Grit

Giunto al terzo album da solista Tim Holehouse è praticamente uno sconosciuto in Italia. Nessuna notizia o recensione si trova in giro per il web nostrano. Eppure il personaggio è di quelli interessanti: artista con esperienze e collaborazioni variegate, dal progressive dei Shima all'hardcore dei Soon the Darkness, passando addirittura per il black metal dei Naked Shit!

L'esordio solitario avviene nel 2005 con il disco Found dead on the shoreline, costato la bellezza di trenta sterline con una registrazione su quattro misere tracce.

L'approccio musicale si potrebbe intendere come un “indie” a tutto tondo, anche se incentrato su un modello di cantautorato country-folk impreziosito da una voce profonda e gutturale alla Tom Waits.

Grit però non rispetta propriamente questo canovaccio, mostrando invece una maggiore propensione per un garage-rock alla Stooges (Blood to spill, Long road to nowhere), svolta dovuta a detta dell'autore anche a causa di problemi alla voce che l'hanno costretto a cambiare stile di canto, accentuando così il passaggio dall'originario stridente screamo ad una melodicità sempre più mansueta, pur tenuta nel filotto voodoo rock di cantanti come Screamin' Jay Hawkins e Lux Interior (Cramps).

Questo tuffo nel mondo rock avviene però nell'ancoraggio ad un sound tendente ad atmosfere blues classiche, articolate tra motivi più heavy (The prisoner, Into Mexico) e sfilacciati racconti zingareschi (Broken bones) che diventano il punto di convergenza con i dischi precedenti, continuando a rievocare la presenza ingombrante e spudorata di Tom Waits.

Si arriva addirittura a ritirare in ballo Howlin' Wolf e temi antichi come il diavolo arrivato nei caldi stati del Sud delle piantagioni (The Devil, went back down to Georgia) o la gente “condannata” e indesiderata come mascalzoni, ladri e straccioni (Rogues gallery).

Complessivamente l'impressione è insomma più che godibile, ché non si assiste né a cadute di stile, né a momenti di stanca. Il pregio di mantenere una buona compattezza qualitativa con limitati passaggi a vuoto diventa però anche il problema più consistente se si nota la mancanza di brani davvero memorabili in grado di trascinare l'ascoltatore. Il rischio è anche quello di ricondurre il tutto ad un'analisi superficiale del tipo “tò, Tom Waits che si diverte a risuonare garage-rock”.

Se si supera tutto ciò si potrà godere la scoperta di un artista tutto sommato molto interessante, e di un album che scorre senza infamia e con qualche piccola lode.

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