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R Recensione

7/10

The Horrors

Strange House

"Questo album è esattamente quello che gli Horrors si erano prefissati di fare. Noi non vogliamo essere buoni amici di tutti, solo di quelli che conoscono la buona musica" (Faris Rotter, frontman della band)

Immaginate il suono grezzo, sporco, non filtrato del rock anni '60/primissimi anni '70. Immaginate l'attitudine delle band garage punk proliferate dopo il Sessantotto: aggiungete i Jesus & Mary Chain, mezzo litro di idiozia, un uso smodato di tastiera e sintetizzatore, atmosfere garage, testi al limite fra lo scabroso ed il macabro, una velocità esecutiva ispirata dai Sex Pistols, un pizzico di sale. Dimenticato qualcosa? Ma certo: un allucinogeno estratto di anfetamine.

Mischiate tutto e verrà fuori questa nuova band inglese, The Horrors: subito eletto a "next big thing" dai critici inglesi, il gruppo di Southend, formato da Faris Rotter (voce), Tomethy Furse (basso), Joshua Von Grimm (chitarra elettrica), Spider Webb (tastiere) e Coffin Joe (batteria), ha però gran poco da condividere con la linea brit pop instauratasi nel Regno Unito da una quindicina d'anni a questa parte. I cinque ragazzi suonano un bel rock'n'roll, grezzo e contaminato da ispirazioni garage (per quanto riguarda la linea sonora) e punk (batteria e linee vocali, quasi recitate). Insomma, un genere che si rivela essere molto più duro, ostico ed originale rispetto alla media presentataci dai discografici britannici.

Le canzoni, tutte di media durata (si oscilla quasi sempre sui tre minuti scarsi), sono dei piccoli racconti in cui vengono sviscerati teatralmente minimi episodi fra l'assurdo demagogico e la pomposità idiota: che si tratti di "Jack The Ripper", con un'apertura in sintetizzatore che precede squarci di rock con rimandi a Rolling Stones (nell'incipit), Jesus & Mary Chain (nelle strofe) e Sex Pistols (ritornello); o che si prenda in considerazione il secondo singolo estratto "Count In Five", una mistura fra synth vibranti ed apocalittici e una voce che spesso si perde nell'isterismo epilettico, che lo rende uno dei migliori brani dell'intero lavoro.

Ma c'è spazio per tutto, e per tutti, come dimostra la terza "Draw Japan" (schegge di rock tiratissimo che si alternano a stacchi di celesta). "Gloves" è una canzone più ancorata al rock tradizionale, che ricorda vagamente i primi Casualties nello scandimento del ritornello, senza scadere comunque in un'oscena scopiazzatura. Tocca a "Excellent Choice", una sorta di monologo tessuto sopra un tappeto di riff atoni e trepidanti, che si mantengono tali per tutto l'incedere del pezzo: poi viene "Little Victories", ritmata marzialmente da un copia/incolla di campionamenti elettronici, e perfettamente recitata, in modo sghembo e falsamente sorpreso, dalla voce di Rotter. L'elicottero che dà il via a "She Is The New Thing" è un falso pretesto per innestare atmosfere a metà fra oscuri barocchismi e sonate di tastiera: tutto il contrario del primo singolo estratto, "Sheena Is A Parasite", un proiettile a metà fra le percussioni rapide e precise (decisamente in rilievo) e i riff aspri e sporchi, ottimamente amalgamati e diretti dalla voce del vocalist, che riesce a mutare una voluta monotonia in un'esasperazione shakesperiana, in brevissimo tempo, come in una violenta dissolvenza. "Thunderclaps", aperta da una scarica percussionistica, viene sorretta solo dai cori collettivi, vagamente rivoluzionari, presenti nel ritornello, accompagnati da un'ossessiva tastiera. Eccezionale l'idea di rendere in stile quasi nipponico l'incipit della successiva, strumentale, "Gil Sleeping". Questa volta, ci pensano gli echi a sostituire il testo: e sono echi che parlano chiaramente di case diroccate, di tetre serate notturne, di fantasmi, di scricchiolìi non sospetti, grazie alla sapiente manipolazione di loop da parte di Webb.

Decisamente interessante è la cupa "A Train Roars", in cui la band londinese impiega su larga scala riff a metà fra la psichedelia (conseguenza dell'LSD?) e il primo hard rock dei Seventies: e l'effetto, anche se un po' dispersivo e confusionario, viene rafforzato dal continuo martellamento di tastiera. Chiude il tutto una ghost track ("Death At The Chapel") dal fortissimo (ed evidente) imprinting punk. Come se i Pistols decidessero di fare un giro sulle montagne russe, vestiti come chierichetti, dopo essersi visti Nosferatu.

In sostanza, decisamente un buon esordio, di una band che farà presto parlare di sè. L'unica grande pecca del disco è composta dall'inesperienza: alcune canzoni presentano uno schema troppo simile fra di loro, talvolta le chitarre presentano delle incertezze sonore, e la ridondanza del vocalism spesso non è facilmente digeribile. Ma sbagliando s'impara: e molte speranze sono riposte in questa formazione, non solo per il presente, ma anche per il futuro, a breve e lungo termine.

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Voto degli utenti: 6,3/10 in media su 9 voti.
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REBBY 6/10
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Alessandro Pascale (ha votato 8 questo disco) alle 9:48 del 21 luglio 2007 ha scritto:

un disco sorprendente

pensavo al classico fenomeno da baraccone invece mi son trovato un gruppo con gli attributi. Qualche pecca c'è però tutto sommato un esordio davvero sfolgorante. Io ci ho sentito molta influenza anche di Killing Joke e Bauhaus e in generale della new wave più "nera"

marcot alle 13:23 del 22 dicembre 2008 ha scritto:

RE: un disco sorprendente

quoto...l'apparenza qualche volta NON inganna XD