The Strokes
Room On Fire
Room On Fire esce nel 2003, dopo oltre due anni di silenzio diventati un’ossessione per i molti fan degli Strokes e del loro esordio Is This It. Room On Fire esce ed ecco che subito il fronte dei musicofili si spacca: da una parte chi urla al tradimento e lancia epiteti gravi come “venduti” e “commerciali”, dall’altra chi si compiace soddisfatto della sua copia del disco e lancia strali contro la metà dei fan che non sa apprezzare. Ma in definitiva qual è il valore di Room On Fire e perché ha suscitato tante reazioni opposte? Per capirlo bisogna tornare a Is This It e al suo suono fresco, vivace e molto rock’n’roll che costituì una boccata d’aria fresca per la scena rock internazionale. Gran parte degli insulti che piovono su Room On Fire dipendono infatti dalle false attese che si erano create nel 2000 dopo l’esordio della band.
Is This It aveva di fatto portato gli Strokes alla ribalta consacrandoli come i salvatori della patria, i condottieri da seguire, i ragazzi coraggiosi che avrebbero guidato il rock verso nuove vette artistiche. In realtà gli Strokes sono solo cinque ragazzi di New York capaci di suonare un godibilissimo garage-pop-rock e che non sono sicuramente né dei salvatori né le guide spirituali del nuovo millennio. Ecco perché Room On Fire ha deluso profondamente chi pregustava un nuovo capolavoro innovativo. Queste persone non hanno voluto capire che la delusione provata non deve far dimenticare che ci troviamo di fronte a un semplice e onesto album rock con grandi canzoni che rimangono nella scia della strada aperta da Is This It. Certo si può notare che il gruppo abbia patinato leggermente il proprio sound strizzando l’occhio al grande pubblico. Si può anche notare come l’assoluta mancanza di innovazione sia un vizio terribile per un gruppo.
È tutto vero, certo, ma penso che in mezzo a tutte queste analisi ci si sia dimenticati di una cosa basilare: le canzoni. Perché in fondo negli undici pezzi che accompagnano l’ascolto per 33 minuti si fa fatica a trovare falle. Niente di nuovo, è vero, però a mio avviso siamo di fronte all’ideale seguito di Is This It: se avete amate il primo album non potrete rimanere delusi da questo: ritornelli e assoli freschi e diretti, batteria un filo più elettrica e i soliti intrecci di chitarre alla Velvet Underground. Il suono è più lavorato e meno ruvido ma guadagna in precisione ed esperienza. E allora ecco che ascolti “What ever happened?” e pensi che non è cambiato niente, che sono gli stessi di “Last Nite”; poi però parte “Reptilia” e rimani paralizzato da un riff micidiale come il morso di un serpente e diretto come un pugno nello stomaco. L’assolo è da paura e Casablanca al cantato urla spudoratamente bene. Essenziale e genuino come deve essere il rock’n’roll di fatto “Reptilia” è uno dei pezzi più belli realizzati dalla band. Tra le altre canzoni da segnalare ci sono sicuramente la vellutata 12:51, l’ammaliante “Between love & hate” e la scanzonata e graffiante “The endhas no end” ma in generale si fa davvero fatica a trovare pecche e risulta ingeneroso snobbare le tracce restanti.
In definitiva il giudizio finale non può non risentire del fatto che questo è un secondo album pressoché identico al primo. Tuttavia la questione non deve portare a definire fallimentare questo seguito, perché se è vero che l’innovazione è assente la qualità è rimasta pressoché inalterata e alla fine, al momento dell’ascolto ti scordi i tuoi onanismi mentali da critichino e molto semplicemente ti limiti ad ascoltarlo: e te la godi, col sorriso stampato fisso sulle labbra.
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