Nico
The Marble Index
Ci sono artisti (due nomi a caso, Tim Buckley e Scott Walker) che, nei loro anni migliori, hanno travalicato il tempo e lo spazio di un’epoca. Nico, all’anagrafe Christa Paffgen, è indiscutibilmente parte di questa cerchia di musicisti “aliena” e immortale. Vestale gotica di riti ancestrali e antichissimi, icona di un immaginario mitteleuropeo e lugubre, la musa di Andy Warhol ha avuto un impatto notevole sulle future generazioni dark, psych-folk e dream-pop, creando praticamente dal nulla un’estetica sonora cupa e priva di compromessi.
Un lancinante canto di dolore immerso nel vuoto assordante di una cattedrale deserta. Un buco nero che pochi hanno avuto davvero il coraggio di attraversare (con il rischio di venirne risucchiati per sempre). Nico ha oltrepassato quella porta sconosciuta, navigando nell’oscurità più tetra dell’animo umano, e il percorso tracciato dalla sua opera è stato un esempio per molte band e cantautrici a venire. La musica di Nico non contempla i raggi di sole del giorno, né l’alba. Aspetta il tramonto, il respiro della notte e la pallida luce lunare.
Dopo l’esordio solista nel ’67 con il canonico baroque-pop di “Chelsea Girl” (e omonimo film warholiano), l’ex bionda modella-chanteuse tedesca decide di registrare nel settembre dell’anno successivo, presso gli Elektra Sound Recorders di Los Angeles, un lavoro impegnativo e personale. Qualcosa che nasca dalle cicatrici interiori, dai tormenti e dai dubbi di sé. Quel “qualcosa” d’indecifrabile e unico, dal potente fascino evocativo, sarà “The Marble Index”. Un monolite scuro e imponente, se vogliamo azzardare importanti paragoni cinematografici contemporanei.
La produzione di Frazier Mohawk e l’aiuto del fido John Cale daranno un contributo sostanziale al suono solenne e mesmerico di “The Marble Index”. L’ex-sodale velvettiano suonerà, infatti, quasi ogni strumento (viola elettrica, piano, basso, chitarra, glockenspiel, campane e armonica). “Prelude” è l’incipit strumentale di questo viaggio senza ritorno, un minuto di echi eterei e atmosferici. I bordoni e le note circolari dell’harmonium suonato da Nico in “Lawns Of Dawns” fanno tesoro della lezione minimalista di LaMonte Young all’allievo Cale: “Prati Di Albe” è un visionario riferimento all’esperienza lisergica con il peyote della Paffgen e Jim Morrison nel deserto della California, durante i tardi Sessanta. “No One Is There” è una medievale nenia contrappuntata dalla viola di Cale e dall’ipnotico timbro dell’interprete di “Femme Fatale”.
La malinconica dedica materna di “Ari’s Song” è una fioca candela di speranza e pace tra le tenebre degli abissi, un altrove indefinito di droni impalpabili, rumori gelidi e avant-garde che prende forma in “Facing The Wind”. La sepolcrale sacerdotessa osserva il suo riflesso in un pozzo profondo di solitudine, dove l’esistenza è una ossessiva partita a scacchi con la Morte bergmaniana de “Il Settimo Sigillo”, e nient’altro. “Frozen Warnings” rimane uno dei brani indelebili di Nico, un sogno\incubo da una dimensione lovecraftiana, che ha generato il culto di tanti proseliti con buona memoria (Brian Eno, Siouxsie, Dead Can Dance, la label 4AD).
La dea pagana dell’onirica “Evening Of Light” ci congeda da un mondo d’inquietudine e superstizione: un incantesimo sospeso in un limbo di dannati, una lotta contro i propri demoni in perenne esilio dalla vita. “The Marble Index” è un enigma irrisolto, immaginifico e figurativo come un quadro di Bosch, spettrale e diafano come il volto della sua misteriosa autrice.
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