Canadians
Mitch
Dieci e passa anni fa, quando Romano Prodi era ancora primo ministro e MySpace la piattaforma più gettonata dagli artisti emergenti, i Canadians erano una delle band di punta dellindie rock italiano unentità misteriosa che, esattamente come Prodi e MySpace, oggi non esiste più, o, per meglio dire, sopravvive senza far più registrare la minima traccia di sé. Si potevano ancora indossare senza alcuna vergogna magliette fluo a righe e sneakers fintamente consumate, usare nelle conversazioni quotidiane parole come new new wave, nu rave (!) e brit rock revival (!!), citare NME e Sheffield come se si trattasse del Corriere e di Torpignattara, guardare Yos poi Flux poi Qoob con gli amici, eccetera eccetera. In questo quadro, che ai più giovani risulterà criptofantascienza o poco più, un disco come A Sky With No Stars fece il botto, contribuendo a incrinare quegli steccati tra indie e mainstream che con il successivo emergere del nuovo cantautorato liquido, da LLDCE a Dente fino ai Cani, Calcutta e compagnia cantante sarebbero stati divelti e resi obsoleti una volta per tutte. Per farla breve, dieci e passa anni fa, allapice della loro fama, i Canadians erano riusciti ad incarnare totemicamente tutto ciò che odiavo nella musica in quel periodo: la transitorietà, la leggerezza, il disimpegno, la moda (oddio! la moda! si odia ancora qualcosa perché va di moda? Mai odiare, mi direi oggi: è solo tempo perso inutilmente...). Triste morale della favola: i Canadians andavano talmente di moda che, nel 2011, dopo aver calcato trionfalmente le assi dellHeineken Jammin Contest (a proposito di scheletri zvjaginceviani ) ed aver piazzato in pompa magna il secondo The Fall Of 1960, si sciolsero. Così, semplicemente.
Sic transit gloria mundi, anche per i gruppi belli grossi, e a forza di passare, questa gloria, fa un giro completo, tornando da dove era partita. Tradotto nella situazione concreta, una reunion fuori tempo massimo: non più in assetto a cinque, ma in un più snello terzetto, con lombra del quarto convitato di pietra Michele Mitch Nicoli a cui questo terzo full length è salomonicamente dedicato che ha generosamente foraggiato la realizzazione del comeback dei veronesi. A stranirmi, dirò la verità, non è però lesistenza di Mitch in sé: non potrebbe, dacché non si contano sui tentacoli di una piovra i ritorni discografici di formazioni unanimemente considerate morte e sepolte. A non tornarmi vè, piuttosto, qualcosa che ha a che fare con la sua ricezione: non il rumore bianco del feedback, non le critiche e gli elogi, quanto piuttosto la netta percezione che (della vita precedente) dei Canadians ci si sia quasi dimenticati e che di conseguenza, nonostante limponente mole di informazioni facilmente recuperabili in un nanosecondo, ci si avvicini alla band con la curiosità professionale di chi si appresta a verificare la tenuta di un esordio.
Curiosamente, di un prototipico esordio quale non dovrebbe essere, Mitch esibisce, in bella mostra, il tiro e la freschezza. Dalle assolate, malinconiche spianate californiane delliniziale What I Could Be And Im Not (uno slacker al curaro dagli evidenti riflessi melodic punk) ai Weezer drammatici e ocasekiani della riverberata Girl From Outer Space (sono quindici anni almeno che la band di River Cuomo non scrive un brano così), dalle pervasive armonizzazioni del ritornello di Sometimes (basso inconfondibilmente plettrato) alla retromane dichiarazione damore college rock di Jennifer Parker (se ve lo state chiedendo: sì, il riferimento è proprio a quel cult), dal brit dantan di To The End a certi maligni trucchi mascisiani sfoderati nel lento felpato di Its Gone, il ritorno allazione dei Canadians è tutto un susseguirsi di pezzi granitici, melodie brillanti e saggi di songwriting come mai si erano sentiti prima dora. Alla faccia del warm up, della ruggine per linattività: qui si scalpita. Poco importa, in fondo, che leccesso di patetismo performativo di tanto in tanto affossi alcuni spunti interessanti (lo svenevole cheek-to-cheek di Dying For You, i Sunny Day Real Estate di seconda mano in Charlie The Goose), o che altri esperimenti non possano dirsi riusciti (si veda il nudo quasi-post rock in crescendo di Epiphany Day, sorretto da un arpeggio inquietantemente simile alla vecchia Wherever You Will Go dei Calling), se nella manica Mitch può vantare due inaspettati assi di grande prestigio: il possente indie kinselliano di In My Dreams, dalle squadrature lievemente matematiche, e lemo chitarristico di Something Broken, che prende corpo da un bozzolo ambientale.
Non saprei dire se, ad influire, è la progressiva consapevolezza di stare invecchiando, linsensata nostalgia di tutto ciò che ha caratterizzato nel bene e nel male la mia adolescenza, il desiderio di una vita persa per sempre, la discutibile qualità media dellattuale scena italiana o chissà cosaltro. Quello che so è che Mitch è, sorprendentemente, un ottimo disco: smarcato da ogni corrente, libero da qualsivoglia pressione, pulsante, vivo. Mi sbilancio ulteriormente: se fossi in voi, data la mancanza di piani per dar seguito alla prima tiratura limitata, una copia fisica me la accaparrerei al volo.
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