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R Recensione

7/10

Canadians

Mitch

Dieci e passa anni fa, quando Romano Prodi era ancora primo ministro e MySpace la piattaforma più gettonata dagli artisti emergenti, i Canadians erano una delle band di punta dell’indie rock italiano – un’entità misteriosa che, esattamente come Prodi e MySpace, oggi non esiste più, o, per meglio dire, sopravvive senza far più registrare la minima traccia di sé. Si potevano ancora indossare senza alcuna vergogna magliette fluo a righe e sneakers fintamente consumate, usare nelle conversazioni quotidiane parole come new new wave, nu rave (!) e brit rock revival (!!), citare NME e Sheffield come se si trattasse del Corriere e di Torpignattara, guardare Yos poi Flux poi Qoob con gli amici, eccetera eccetera. In questo quadro, che ai più giovani risulterà criptofantascienza o poco più, un disco come “A Sky With No Stars” fece il botto, contribuendo a incrinare quegli steccati tra indie e mainstream che – con il successivo emergere del nuovo cantautorato “liquido”, da LLDCE a Dente fino ai Cani, Calcutta e compagnia cantante – sarebbero stati divelti e resi obsoleti una volta per tutte. Per farla breve, dieci e passa anni fa, all’apice della loro fama, i Canadians erano riusciti ad incarnare totemicamente tutto ciò che odiavo nella musica in quel periodo: la transitorietà, la leggerezza, il disimpegno, la moda (oddio! la moda! si odia ancora qualcosa perché “va di moda”? Mai odiare, mi direi oggi: è solo tempo perso inutilmente...). Triste morale della favola: i Canadians andavano talmente di moda che, nel 2011, dopo aver calcato trionfalmente le assi dell’Heineken Jammin’ Contest (a proposito di scheletri zvjaginceviani…) ed aver piazzato in pompa magna il secondo “The Fall Of 1960”, si sciolsero. Così, semplicemente.

Sic transit gloria mundi, anche per i gruppi belli grossi, e a forza di passare, questa gloria, fa un giro completo, tornando da dove era partita. Tradotto nella situazione concreta, una reunion fuori tempo massimo: non più in assetto a cinque, ma in un più snello terzetto, con l’ombra del quarto convitato di pietra Michele “Mitch” Nicoli – a cui questo terzo full length è salomonicamente dedicato – che ha generosamente foraggiato la realizzazione del comeback dei veronesi. A stranirmi, dirò la verità, non è però l’esistenza di “Mitch” in sé: non potrebbe, dacché non si contano sui tentacoli di una piovra i ritorni discografici di formazioni unanimemente considerate morte e sepolte. A non tornarmi v’è, piuttosto, qualcosa che ha a che fare con la sua ricezione: non il rumore bianco del feedback, non le critiche e gli elogi, quanto piuttosto la netta percezione che (della vita precedente) dei Canadians ci si sia quasi dimenticati e che di conseguenza, nonostante l’imponente mole di informazioni facilmente recuperabili in un nanosecondo, ci si avvicini alla band con la curiosità professionale di chi si appresta a verificare la tenuta di un esordio.

Curiosamente, di un prototipico esordio quale non dovrebbe essere, “Mitch” esibisce, in bella mostra, il tiro e la freschezza. Dalle assolate, malinconiche spianate californiane dell’iniziale “What I Could Be And I’m Not” (uno slacker al curaro dagli evidenti riflessi melodic punk) ai Weezer drammatici e ocasekiani della riverberata “Girl From Outer Space” (sono quindici anni almeno che la band di River Cuomo non scrive un brano così), dalle pervasive armonizzazioni del ritornello di “Sometimes” (basso inconfondibilmente plettrato) alla retromane dichiarazione d’amore college rock di “Jennifer Parker” (se ve lo state chiedendo: sì, il riferimento è proprio a quel cult), dal brit d’antan di “To The End” a certi maligni trucchi mascisiani sfoderati nel lento felpato di “It’s Gone”, il ritorno all’azione dei Canadians è tutto un susseguirsi di pezzi granitici, melodie brillanti e saggi di songwriting come mai si erano sentiti prima d’ora. Alla faccia del warm up, della ruggine per l’inattività: qui si scalpita. Poco importa, in fondo, che l’eccesso di patetismo performativo di tanto in tanto affossi alcuni spunti interessanti (lo svenevole cheek-to-cheek di “Dying For You”, i Sunny Day Real Estate di seconda mano in “Charlie The Goose”), o che altri esperimenti non possano dirsi riusciti (si veda il nudo quasi-post rock in crescendo di “Epiphany Day”, sorretto da un arpeggio inquietantemente simile alla vecchia “Wherever You Will Go” dei Calling), se nella manica “Mitch” può vantare due inaspettati assi di grande prestigio: il possente indie kinselliano di “In My Dreams”, dalle squadrature lievemente matematiche, e l’emo chitarristico di “Something Broken”, che prende corpo da un bozzolo ambientale.

Non saprei dire se, ad influire, è la progressiva consapevolezza di stare invecchiando, l’insensata nostalgia di tutto ciò che ha caratterizzato nel bene e nel male la mia adolescenza, il desiderio di una vita persa per sempre, la discutibile qualità media dell’attuale scena italiana o chissà cos’altro. Quello che so è che “Mitch” è, sorprendentemente, un ottimo disco: smarcato da ogni corrente, libero da qualsivoglia pressione, pulsante, vivo. Mi sbilancio ulteriormente: se fossi in voi, data la mancanza di piani per dar seguito alla prima tiratura limitata, una copia fisica me la accaparrerei al volo.

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