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R Recensione

5/10

Weezer

Weezer (The Black Album)

I Weezer dell’ultimo decennio assomigliano inquietantemente al severo guardaroba di un vecchio nonno: per quanto si cerchi di agghindarlo, trasformarlo ed ammodernarlo rimane sempre, ostinatamente identico a sé stesso. Così – fra strombazzati ritorni al passato, dubbiosi sguardi al futuro, raccolte estemporanee di canzonette e cazzeggio spinto oltre ogni limite – si giunge infine al vischioso nero che ricopre dalla testa ai piedi (intrappolandoli?) Rivers Cuomo e compagni sulla copertina del loro tredicesimo disco in studio, il sesto omonimo e ideale contraltare del “White Album” del 2016. L’ideale rimane tale: solo su carta. All’elementare solarità power rock del disco bianco, il compagno scuro non oppone riff saturi, grandangoli esistenziali o introspezioni elettriche: a dire la verità, non oppone (quasi) niente. Non si replicano le sconfortanti banalità dell’infelice “Pacific Daydream”, ma il risultato è ugualmente deludente.

Ormai da tempo immemore i Weezer si sono accontentati di ricoprire il ruolo di anzianotta rock band da binge listening, sopravvissuta ai propri spettri e alle proprie ambizioni e in perenne ricerca di rimanere allineata con i gusti dei tempi che corrono. Come questo perenne e snaturante compromesso possa davvero soddisfare qualcuno è un mistero che travalica ogni umana comprensione. A questo giro, su una scaletta di dieci episodi se ne salvano sì e no due. Il primo, scritto da Cuomo assieme al produttore Josh Alexander e di oggettiva gran classe, è “High As A Kite”: apertura pianistica beatlesiana (con tutt’attorno una cornice strumentale discreta, ma d’ottimo gusto) che sfocia in un solidissimo ritornellone drammatico tra emo e AOR. Il secondo, comunque piuttosto prescindibile, è lo sciocco hard-slacker mononota di “The Prince Who Wanted Everything”, il cui chorus viene minato da una spruzzata di tremendi ottoni sintetici. Il resto traccheggia fra stereotipi di dubbio gusto (nella bossa digitale di “Byzantine” c’è anche la penna di Laura Jane Grace degli Against Me!), macchine da guerra appositamente approntate per l’assalto alle charts (una “Can’t Knock The Hustle” che si dibatte fra latin rock e r’n’b, con tanto di clavinet: il power rock bombastico e trappeggiante di “Zombie Bastards”; il delirio electro di “California Snow”) e riempitivi a tratti irritanti (il mid-tempo pianistico di “Piece Of Cake”, l’arena-funk di “Too Many Thoughts In My Head”).

Non vi sono molte altre parole da spendere. Viene a tratti in mente la china devolutiva imboccata dal 2010 in avanti dagli Ok Go, per certi versi i Weezer della loro generazione: se non fosse che la gang di Rivers Cuomo, oltre a non avere più nulla da dire, lo dice con una prolificità estenuante (il prossimo disco è già in preparazione). Preceduto di un paio di mesi dal superfluo “Weezer (The Teal Album)”, disco di cover nato casualmente sull’onda del feedback proveniente dai social network. 

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