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R Recensione

6/10

Weezer

Everything Will Be Alright In The End

The world has turned and left me here. Chi sottovaluterebbe il peso di una tale confessione, da parte di un timido ragazzino nerd che spunta fuori dalla sua cameretta con uno dei dischi migliori e più importanti degli anni ’90? È lo stesso mormorio di sconfitta esistenziale che per Kurt Cobain divenne una canna di fucile calibro 20, per David Pajo un urlo strozzato in gola, per Ian Williams la decostruzione sistematica del linguaggio rock stereotipato del decennio precedente (ci limitiamo, senza pretesa di esaustività, a tre magna exempla). I vent’anni successivi degli Weezer sono stati un corollario, di tanto in tanto esaltante, molto più spesso onesto, altrove sfrontatamente pacchiano, al monolitico concetto chiave di inadeguatezza – nei rapporti interpersonali, in società, nella musica. In una zona d’ombra indefinita ed indefinibile tra allure da rockstar alternative, tormento introspettivo e prodromi di rivolta intellettuale, anche nei frangenti in cui ricostruire una posticcia verginità naïf diventava impossibile per l’erosione progressiva dell’entroterra culturale in cui il gruppo si era formato, i quattro di Los Angeles, California non hanno mai rinunciato ad interpretare il ruolo loro congeniale, eterni Peter Pan del Commodore innamorati dell’emo, del power pop e della distorsione a buon mercato: in questo c’è forse inutile ostinazione, ma anche apprezzabile coerenza.

Da tempo padri di famiglia accasati e monumenti di un’epoca che fu, gli Weezer tentano oggi – a vent’anni esatti di distanza dallo splendido “Blue Album” – di recuperare quell’auctoritas sperperata nelle ultime, disarticolate prove in studio (l’orribile “Raditude” del 2009, “Hurley” e “Death To False Metal” dell’anno successivo), raccolte di canzoncine fragili e vacue e di sbrodolamenti crossover senza alcun nerbo. La ricetta segreta è, ancora una volta, rituffarsi nel passato: chitarre tirate a lucido e l’onnipresente Ric Ocasek in cabina di regia. Ne esce “Everything Will Be Alright In The End”, un saggio di magistrale autocitazione in cui la band, con sulle spalle la pressione del pugile in declino, non si nasconde dietro un dito e sfodera una prestazione che abbonda di forma e difetta di sostanza. Troppo è stato detto e scritto, negli anni, per non riconoscere la malinconia del tempus fugit che cola, come cera fusa, sulle trame di un disco studiato a tavolino nel minimo dettaglio: i tre accordi palpitanti e tragici di “Ain’t Got Nobody” (Cars fino al midollo e oltre, specie nel fraseggio), i tizzoni del falò alt-rock di “Go Away” (cantata in coppia con l’insapore voce femminile di Bethany Cosentino dei Best Coast), l’esasperata ricerca armonica – AOR? – di “Eulogy For A Rock Band”, il micidiale ritornello dell’arioso whistling di “Da Vinci”.

Per finire bene, intendiamoci, finisce bene: con mestiere e canzoni del genere, d’altro canto, difficile anche solo pensare il contrario. Giacché il solipsismo (oltre che il pacifismo) mi confonde, e i Muse li ascolto volentieri solo fino ad “Absolution”, a perplimere è solamente la tripletta finale. In una sorta di mini suite sinfonica, come degli strani Who passati sotto la lente di Meat Loaf, “I. The Waste Lands”, “II. Anonymous” e “III. Return To Ithaka” tirano fuori i peggiori scheletri dall’armadio del gruppo: sei corde spinte in un’irreale tenzone hard rock (se già “Maladroit” vi pareva un po’ troppo, aspettate di ascoltare il delirio di legati e tapping neoclassici che chiude, con inutile sfarzo, l’ultima parte), caramelli barocchi di pianoforte, linee vocali vibranti ed appariscenti. Si tratta, né più né meno, di quell’attrazione malefica per il kitsch che gli Weezer hanno sempre avuto nel loro dna, e che è capace di manifestarsi in molti modi diversi: per cui, se all’epoca non lo perdonammo agli Ok Go, non si capisce perché dovremmo amnistiare la ruffianata funk di “I’ve Had It Up To Here” ai maestri. Il resto, tra la settantiana “Back To The Shack” (ennesima figlioccia di “Beverly Hills”) e una “Lonely Girl” che fa il verso a “Don’t Let Go”, scorre che è una meraviglia.

Redenzione? No. Ma, ad essere sinceri, nemmeno ce l’aspettavamo. Il mondo è cambiato: ancora una volta.

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Voto degli utenti: 5,8/10 in media su 2 voti.
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nebraska82 (ha votato 7 questo disco) alle 10:25 del 4 novembre 2014 ha scritto:

secondo me è il loro miglior disco da tempo immemore, e non sono l'unico ad averlo fatto notare...si avverte davvero un colpo di coda di Rivers e soci e un ritorno alla frescheza compositiva degli anni 90. Veramente piacevole e la sinfonia pop prog alla fine è la ciliegina sulla torta.