Weezer
Everything Will Be Alright In The End
The world has turned and left me here. Chi sottovaluterebbe il peso di una tale confessione, da parte di un timido ragazzino nerd che spunta fuori dalla sua cameretta con uno dei dischi migliori e più importanti degli anni 90? È lo stesso mormorio di sconfitta esistenziale che per Kurt Cobain divenne una canna di fucile calibro 20, per David Pajo un urlo strozzato in gola, per Ian Williams la decostruzione sistematica del linguaggio rock stereotipato del decennio precedente (ci limitiamo, senza pretesa di esaustività, a tre magna exempla). I ventanni successivi degli Weezer sono stati un corollario, di tanto in tanto esaltante, molto più spesso onesto, altrove sfrontatamente pacchiano, al monolitico concetto chiave di inadeguatezza nei rapporti interpersonali, in società, nella musica. In una zona dombra indefinita ed indefinibile tra allure da rockstar alternative, tormento introspettivo e prodromi di rivolta intellettuale, anche nei frangenti in cui ricostruire una posticcia verginità naïf diventava impossibile per lerosione progressiva dellentroterra culturale in cui il gruppo si era formato, i quattro di Los Angeles, California non hanno mai rinunciato ad interpretare il ruolo loro congeniale, eterni Peter Pan del Commodore innamorati dellemo, del power pop e della distorsione a buon mercato: in questo cè forse inutile ostinazione, ma anche apprezzabile coerenza.
Da tempo padri di famiglia accasati e monumenti di unepoca che fu, gli Weezer tentano oggi a ventanni esatti di distanza dallo splendido Blue Album di recuperare quellauctoritas sperperata nelle ultime, disarticolate prove in studio (lorribile Raditude del 2009, Hurley e Death To False Metal dellanno successivo), raccolte di canzoncine fragili e vacue e di sbrodolamenti crossover senza alcun nerbo. La ricetta segreta è, ancora una volta, rituffarsi nel passato: chitarre tirate a lucido e lonnipresente Ric Ocasek in cabina di regia. Ne esce Everything Will Be Alright In The End, un saggio di magistrale autocitazione in cui la band, con sulle spalle la pressione del pugile in declino, non si nasconde dietro un dito e sfodera una prestazione che abbonda di forma e difetta di sostanza. Troppo è stato detto e scritto, negli anni, per non riconoscere la malinconia del tempus fugit che cola, come cera fusa, sulle trame di un disco studiato a tavolino nel minimo dettaglio: i tre accordi palpitanti e tragici di Aint Got Nobody (Cars fino al midollo e oltre, specie nel fraseggio), i tizzoni del falò alt-rock di Go Away (cantata in coppia con linsapore voce femminile di Bethany Cosentino dei Best Coast), lesasperata ricerca armonica AOR? di Eulogy For A Rock Band, il micidiale ritornello dellarioso whistling di Da Vinci.
Per finire bene, intendiamoci, finisce bene: con mestiere e canzoni del genere, daltro canto, difficile anche solo pensare il contrario. Giacché il solipsismo (oltre che il pacifismo) mi confonde, e i Muse li ascolto volentieri solo fino ad Absolution, a perplimere è solamente la tripletta finale. In una sorta di mini suite sinfonica, come degli strani Who passati sotto la lente di Meat Loaf, I. The Waste Lands, II. Anonymous e III. Return To Ithaka tirano fuori i peggiori scheletri dallarmadio del gruppo: sei corde spinte in unirreale tenzone hard rock (se già Maladroit vi pareva un po troppo, aspettate di ascoltare il delirio di legati e tapping neoclassici che chiude, con inutile sfarzo, lultima parte), caramelli barocchi di pianoforte, linee vocali vibranti ed appariscenti. Si tratta, né più né meno, di quellattrazione malefica per il kitsch che gli Weezer hanno sempre avuto nel loro dna, e che è capace di manifestarsi in molti modi diversi: per cui, se allepoca non lo perdonammo agli Ok Go, non si capisce perché dovremmo amnistiare la ruffianata funk di Ive Had It Up To Here ai maestri. Il resto, tra la settantiana Back To The Shack (ennesima figlioccia di Beverly Hills) e una Lonely Girl che fa il verso a Dont Let Go, scorre che è una meraviglia.
Redenzione? No. Ma, ad essere sinceri, nemmeno ce laspettavamo. Il mondo è cambiato: ancora una volta.
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