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R Recensione

6/10

Weezer

Weezer (The White Album)

…e così, dopo il disco generazionale, quello cupo ed introspettivo, quello costruito su misura per i tardi nerd emo, i cori da stadio, i pout pourri hip hop, l’autocitazionismo spinto, l’operetta rock, cosa rimaneva da fare ai non-più-giovani Weezer per far parlare di sé? Semplice: tornare alle basi, all’essenziale. Dal blu al verde, dal rosso al bianco candido di una mattina di sole californiano accecante, anchilosato dai riverberi di spiagge tutte uguali e di corpi flessuosi, spasmodicamente bramati. Rivers Cuomo ci ha costruito un’intera carriera sopra, ma mai come tra questi solchi l’ossessione per il sesso opposto ha raggiunto tali picchi: non si parla praticamente d’altro, e in tre brani su undici “girls” compare persino nel titolo. Viva la sincerità. Sarà per questo, forse, che molti commentatori hanno voluto vedere, in questo undicesimo “White Album”, l’omaggio più manifesto del quartetto losangelino alla musica e all’estetica dei Beach Boys: influenza che, a nostro giudizio, anche se inconsciamente presente, mai traspare sulla superficie di una scaletta che può solo ammirare da lontano le straordinarie complessità armoniche di Wilson e compagni.

Everything Will Be Alright In The End” stava al romanzo quanto, oggi, “White Album” sta al racconto breve. Diverse le modalità di composizione, chiaramente divergente anche la successiva fruizione. Tanto che – per facilità di assimilazione, estrema linearità melodica e mancanza di guizzi decisivi – ritorna alla mente l’infelice parte centrale del “Green Album”, trainato da grandi singoli, ma un po’ stanco nel suo (breve) complesso. Di pezzi killer, qui dentro, ce ne sono peraltro ancora meno: non lo è la promozionale “California Kids”, appiattita su di una tautologia pop punk vagamente vintage che ha ormai fatto il suo tempo, non lo è la patinata “Jacked Up” (pianoforte saltabeccante e falsetto insistito: Cuomo ormai conosce bene le charts), non la sincopata “King Of The World” (con roboanti chitarre à la Cars, anche se Ric Ocasek non figura in cabina di regia) e nemmeno “(Girl We Got A) Good Thing” che, partita in sordina come strenna natalizia, si invola sulle ali di un bombastico arena rock. Non rimane margine per duplici interpretazioni: nel ridurre tutto all’osso, ciò che si sente è ciò che è. Simpatico ma nulla più, perciò, il whistling pop rock di “Summer Elaine And Drunk Dori” (che rimarca, semmai, quanto gli Weezer siano dipendenti dalle armonie del rock americano anni ’70): riuscito il rimando di “Endless Summer”, torch song sulla falsariga di “Island In The Sun”, che esplode in coda in un elaborato assolo bostoniano; contorte e vagamente fuori luogo le distorsioni di “Prom Night” (bonus track giapponese e chiusura alquanto atipica, per un disco così spiccatamente leggero e solare), ottimamente controbilanciate dall’enfasi sproporzionata, ma melodicamente valida, di “L.A. Girlz”.

Antitetici per costruzione e risultati, “Everything Will Be Alright In The End” e “White Album” possono considerarsi i due lati dello stesso satellite Weezer, da anni non più al vertice del genere, seppure ancora capace di sporadici colpi di coda. Manca un platter nero pece, ora, per completare il gioco degli opposti: Weezer go death metal, questa sì che sarebbe una vera trovata!

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