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R Recensione

9/10

Dead Elephant

Thanatology

L’elefante morto è cupo, straziato, scomposto in mille frammenti. Il suo barrito risuona ancora nell’aria, lugubre ed inelegante controcanto al rimbombo degli ultimi, pesantissimi passi. Sordido e squallido il marrone apocalittico che ne inghiotte le membra. L’industria che uccide la natura, il male che uccide la vita. Condividere la china più bassa di sempre – quella impossibile da risalire, cementata dal peso di mille responsabilità, frustrazioni, incomprensioni – non è servito ad evitare il fatale addio. Ed ora è questione di tanatologia, capire come e quanto la scomparsa fisica di un singolo possa incidere, viepiù psicologicamente che fisicamente in senso stretto, sul gruppo, sull’ambiente, sulla società. Ancora una volta, storie di dolore e rinascita. Di ferite e cauterizzazioni. Di intossicazione e purificazione. In & out. Diventare un nuovo individuo attraverso la turbolenta negazione e il superamento del vecchio.

Di gruppi così, in Italia, dieci come trent’anni fa, nemmeno a setacciare i litorali. Il rock solitamente esige un buona la prima, senza che vi siano i margini concreti per una ipotetica seconda. “Lowest Shared Descent” faceva proprio presupporre uno stereotipo del genere: esordio clamoroso e chi s’è visto, s’è visto. Una cartolina da Cuneo con ricevuta di ritorno: alla faccia della nuova scena, dell’esplosione di creatività, del futuro della musica tricolore. Poteva, ma così non è stato, e “Thanatology” è il manifesto di chi, dopo l’euforia iniziale, ha dovuto raccogliere in solitudine i cocci e ripensare a fondo un intero modo di essere. Il monumento perfetto del movimento alienante. Quattro cannoni puntati sulla carcassa dell’elefante morto, il noise americano metamorfizzato in una caustica rappresentazione di musica totale. In poche parole, un capolavoro: il perfetto completamento del predecessore ed il punto di approdo di un gruppo tra gli orgogli più lucenti della musica made in Italy. Come per tutti i capolavori, necessita di essere seguito nello specifico, pezzo per pezzo. Cominciamo.

1) Bardo Thodol (12.48)

Esce ruggine metallica dagli amplificatori, siderurgia per power trio, accenno minimo  all’evoluzione immediatamente successiva del brano. La somiglianza, all’inizio, è netta quanto lampante: basso spigoloso, rintoccare metafisico di piatti e tamburi, voce che salmodia su sé stessa, sezione strumentale in lento roteare, come un antico triscele. Un perfetto omografo degli OM, difficile da distinguere dall’originale. Sovrapposizione fugace quanto bastevole, perché in breve il pezzo diviene altro: sludge opprimente, la carogna del doom seviziata da una rete di psichedelia a maglie sottilissime, sfibranti, acide più che mai, gli EyeHateGod rivisti dagli Yakuza. Di nuovo il silenzio, il flanger, i drone in ritardo, la tensione che cresce, il melodiare liturgico che serpeggia tra gli effetti, il risorgere della chitarra su ansanti salite post-core, il mi basso che tronca ogni degenerazione e riporta la canzone all’alveo originale, in uno strascinato rintoccare di percussioni ed oggetti estranei.

2) On The Stem (9.12)

I Massimo Volume hanno suonato su The Fall Of The House Of Usher, gli OvO hanno interpretato un digrignante Nosferatu del terzo millennio, i Giardini di Mirò si sono magistralmente occupati della nuova sonorizzazione de Il Fuoco. Ai Dead Elephant non rimaneva altro che la soluzione estrema: la creazione di una propria colonna sonora, di un film mai esistito, sciolto da vincoli ed atmosfere prestabilite. La pressa a vapore si cela tra le nebbie di gittate atmosferiche, tra i cumulonembi di post metal rarefatto, specchiandosi in limpidi pizzicati jazz e rifrazioni ambient di grande spessore emotivo. Non dura poi molto la sospensione, quasi progenie della vecchia – e già sublime – “Black Coffee Breakfast”: l’elefante morto prorompe attraverso colate di musica nera, esasperata, portata alla dissonanza. Il dolore è percepibile ed attende una valvola di sfogo.

3) Destrudo (4.03)

Quasi evocata, sicuramente attesa, voluta a tutti i costi, una frazione di secondo che scatena un inferno. Il momento di “Thanatology”, sopra cui si scarica tutta l’adrenalina fin qui accumulata nell’ascolto, è relegato proprio alla terza tappa, un proiettile di violenza impressionante in cui si accumulano le peggiori scorie noise degli Oxbow, il crescere e decrescere del post, il martellare allucinato dei grumi metallici anni ’90, persino un che di crossover intelligente e consapevole. Botte su denti e gengive, i Barkmarket sfigurati dall’acido, tutto lo schiumare rabbioso del nord Italia che confluisce in questo scolo, l’esasperazione al massimo livello: sarà senz’altro derivativo e poco originale, ma “Destrudo” è il brano giusto, al momento giusto. Il preludio al grande finale.

4) A Teardrop On Your Grave / Downfall Of Xibalba (16.22)

La lacrima che gocciola dagli occhi e si infrange sul freddo marmo di una lapide, sino a penetrare nel terriccio umido, trasuda emozione e raccoglimento. Un passo alla volta, comincia a scrosciare a ritmo indecifrabile un lento, struggente stillicidio di suoni ovattati, prog-jazz alla Perigeo, da ninna nanna o, più semplicemente, colossale evocazione westernatica rintuzzata da riverberi, tremoli, carillon senza fine. È la dolcezza dell’indefinibile, la sensazione limbica di essere a metà fra due sentimenti contrapposti, in un equilibrio sentimentale tanto precario quanto fragile, destinato inevitabilmente a spezzarsi. Un ronzio sale, dal profondo, inizia a coprire le melodie e a disfare le trame: l’elettricità inizia a confluire agli amplificatori, attraverso i jack, dentro le chitarre, sino a renderle macchine di fango e a farle esplodere in un boato apocalittico. Melvins e Harvey Milk si frantumano dentro i Neurosis, in una coda avvilita, depressa, persino nichilista. Spariscono le successioni armoniche, vengono spazzati via i riff, la voce diviene un rantolo: rimangono detriti, calcinacci, rumori ipersaturi, isolazionismo post-nucleare, mentre l’elefante morto avanza, affaticato e compresso, per cadere ancora. Il vuoto, infine.

Sorridi, ed il mondo sorriderà con te. Piangi, e piangerai da solo.

Se volete, consideratelo necessario.

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C Commenti

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crisas alle 0:52 del 5 agosto 2011 ha scritto:

A parte i problemi esistenziali del povero elefante, On the Stem è incantevole !

Stefano_teenagemustache (ha votato 8 questo disco) alle 11:13 del 9 gennaio 2012 ha scritto:

Sono i problemi esistenziali che fanno grande l'elefante