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R Recensione

7/10

Holding Patterns

Endless

Se oggi “Endless” non è il terzo capitolo della carriera dei Crash Of Rhinos lo si deve solamente ad un caso, al gran rifiuto di due ex membri del quintetto inglese di Derby (nello specifico, il bassista Paul Beal e il chitarrista Richard Birkin) di riesumare la ragione sociale interrotta ex abrupto dopo il magnifico “Knots” (2013). Così il triumvirato formato da Jim Cork, Oliver Craven e Ian Draper, determinato a non darsi per vinto e sigillatosi in sala prove senza alcuna idea di quello che sarebbe successo, ha dovuto studiare delle nuove soluzioni, una formazione classica ed essenziale e un approccio stilistico che doppiasse in eterogeneità e dinamismo quello della band precedente. Holding Patterns di nome e di fatto, insomma. Lo sforzo è ammirevole: nel corposo “Endless” (quasi cinquantacinque minuti!) non tutto gira come dovrebbe, ma la cristallina sincerità degli intenti e più di un momento all’altezza dei fasti trascorsi ripagano in pieno l’azzardo.

Il più evidente elemento di discontinuità, nel passaggio da Crash Of Rhinos a Holding Patterns, è l’aumento esponenziale della componente indie rock a dispetto degli influssi emo (si ascoltino il solo, fortunato singolo “At Speed” o il dramma slacker di “No Accident”), che rimangono massicciamente presenti, ma che sono distribuiti in accenti di consistenza più o meno pronunciata lungo tutta la tracklist. Si può arrivare addirittura a dire, con una generalizzazione non infondata per quanto certamente tranchant, che i numeri emo old style siano in fondo quelli meno interessanti, proprio perché interamente costruiti sulla nostalgia del recente passato (“This Shot Will Ring”). Pur nella ristrettezza di numeri e mezzi, invece, il trio britannico è capace di ben altre e ben più grandi cose, specialmente con a disposizione un minutaggio consistente: il polimorfico e sguaiato post-math rock di “Centered At Zero”, la viscerale delicatezza di una ballad elettrica suonata con le chitarre dei Van Pelt (“House Fire”), la sferzata punk di “Dust” infarcita di lick post-core, una diaristica e cerebrale “Long Dead” tra Minerals e Cap’n’Jazz. Niente che non si sia già abbondantemente ascoltato nel corso degli ultimi tre decenni, ma il colpo d’occhio d’insieme è assolutamente entusiasmante e la scelta di chiudere i giochi con l’atipica disposizione di “Momentarily” (agitato trotto pop punk che si dissolve in una texture di chitarre slowcore) una chicca da fuoriclasse.

Certo, se avrò ancora voglia di emozionarmi metterò sul piatto una “Gold On Red” o una “Luck Has A Name”, non una “House Fire”. Non ancora. Il tempo dà e il tempo toglie: gli Holding Patterns chiedono un po’ del nostro tempo ed è una gioia, per noi, concederglielo.

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scompiglio alle 15:46 del 26 giugno 2019 ha scritto:

Messo in ascolto da ieri. Ad ora direi che concordo in pieno con quanto scritto dal recensore. Approfitto per permettermi, caro Marco, avendo un minimo inquadrato i tuoi gusti, di invitarti ad ascoltare l'appena uscito dei Black Midi, "Schlagenheim". Credo ti potrebbe piacere molto. In caso mi dirai . Un saluto.

Marco_Biasio, autore, alle 10:04 del 27 giugno 2019 ha scritto:

Ti ringrazio del passaggio e dei complimenti. Caso vuole che abbia cominciato ad ascoltare i Black Midi da un paio di giorni! Sicuramente ci scriverò qualcosa sopra. Alla prossima!

scompiglio alle 12:26 del 27 giugno 2019 ha scritto:

Oh bene, attendo allora di poter leggere le tue dotte valutazioni!