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R Recensione

6/10

Manic Street Preachers

Futurology

È proprio più forte di loro: i Manics non riescono a non pubblicare un disco massimalista, da stadio e sopra le righe dopo aver provato la spigolosità ruvida (“Journal for Plague Lovers”) o l’elegia (il “Rewind the Film” dell’anno scorso, che era una specie di “fine della storia”). Se dopo “Journal” era uscito il disco peggiore della loro discografia (“Postcards From A Young Man”), stavolta, almeno, l’impressione è che i Manic Street Preachers, alle prese con le loro periodiche manie di grandeur, se la cavino.

Il materiale di “Futurology” (dodicesimo album della band gallese) era già pronto nel 2013, visto che è stato per lo più partorito durante le stesse sessions di “Rewind the Film”, ma a Bradfield e compagni deve essere parsa evidente l’eccessiva distanza tra le nostalgiche ballate che sono finite in quel disco e il potenziale energico e più schiettamente rock degli altri pezzi. Ecco dunque la spartizione in due e l’uscita, a dieci mesi dal precedente lavoro, di questa futurologia.

Che è un assemblaggio del meglio e del peggio dei “tardi” Manics: c’è dentro il cattivo gusto del maturo che vuole sembrare giovane (con ciò spiegherei l’inguardabile copertina, sguaiato rigurgito estetico ’90, oltre a pezzi di pacchiano AOR come “Walk Me To the Bridge” o “Sex, Power, Love and Money”), ma anche la carica di una band ancora tra le poche capaci di fare musica (intelligente, engagé, politica) per le masse.

In tutto ciò la costante dell’album è una maggiore attenzione all’aspetto ritmico, con ascendenze non a caso kraute, visto che il disco è stato registrato a Berlino: “Europa Geht Durch Mich” (con Nina Hoss), “Dreaming of a City (Hugheskova)”, “The Next Jet To Leave Moscow” (Lower Dens "manicizzati") o “Misguided Missile”, con un basso squadrato e durissimo, mostrano dei Manics geometrici come mai nella loro discografia. A bilanciare lo sforamento europeo, d’altronde, ci sono ben tre ospitate gallesi (l’arpista Georga Ruth nella sciapa “Divine Youth”, Cian Ciaran dei Super Furry Animals e Green Gartside degli Scritti Politti per “Between the Clock and the Bed”) e altri richiami britannici innegabili: curioso, ad esempio, e peraltro riuscito, l’esercizio tra glam e dark di “Let’s Go to War”, che sembra ricalcata dai primi citazionisti The Horrors.

E però, lasciando il disco (ascoltabile, curato, con una sua cifra nell'archivio dei Manics, ma anche con ampie zone dimenticabili) e tornando al generale, ancora mi sfugge il senso di pubblicare così tanto per una band che ha ancora qualche cartuccia ma non più, chiaramente, la tenuta di un intero album. Una serie di 45 giri mirati e militanti, forse, sarebbe soluzione più opportuna. Futurologie.

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