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R Recensione

7/10

Pinback

Autumn Of The Seraphs

Non c’è niente da dire: il 2007 parrebbe davvero l’anno dell’indie pop.

I maggiori portabandiera del pop genuino, di quello del tipo “do it yourself”, quello che conta davvero e che dipinge sempre un gran sorriso di soddisfazione sul volto degli habituè, sono tornati alla gran carica, e ad essi si sono aggiunti anche altri nomi dalle enormi potenzialità e dagli esordi sfolgoranti. Questi nove mesi hanno visto il ritorno in veste funk rock della cricca melbourniana degli Architecture In Helsinki, gli acquarelli festosi degli Okkervil River, la varietà compositiva del pittoresco rock dei Cloud Cult, le reminescenze sessantiane degli Shout Out Louds, ma anche i preziosissimi debut album di Loney, Dear, Cats On Fire e The Go Find.

E poi anche i Pinback.

Forse, i più, li ricorderanno grazie al lancio promozionale del bellissimo singolo chiaroscurale “Fortress”, finito anche come colonna sonora di quell’orrendo festone adolescenziale di “The O.C.”. Per il resto, poco o nulla: “Summer In Abaddon”, meraviglioso terzo album in studio del gruppo americano, uno degli orgogli e vanti della scena alternativa nell’intero 2004, era rimasto gioia per i padiglioni auricolari di pochi – e fortunati – eletti.

Ma ora sono ritornati, e ci riprovano. Ed oserei azzardare che il loro ennesimo tentativo è un centro completo, maturo, bene elaborato e sfaccettato, anche in ogni più piccola sfumatura cromatica, che trova nell’adozione di sonorità più accessibili ed, in qualche modo, commerciali, il suo vero, grande punto di forza. Qui mainstream non è una parolaccia insinuante, perché di vero mainstream, in fin dei conti, non si può parlare: solo, i Pinback hanno deciso di diventare più rock, di abbandonarsi meno a languide retrospettive color seppia, e di adoperarsi maggiormente nella costruzione di ritornelli efficaci, pur mantenendo una certa originalità di fondo.

Autumn Of The Seraphs”, quindi, è un disco marcatamente meno onirico e tenue – in senso positivo – dei suoi tre predecessori e, proprio per questo, capace di imprimersi più a fondo nella memoria collettiva degli ascoltatori, ordinari o meno. Stacchi che profumano di brit pop – formula davvero troppo, troppo abusata negli ultimi periodi, ma che qui acquista una seconda giovinezza –, repentine improvvisazioni post rock, freschezza e validità di idee davvero invidiabile, sia negli ambienti prettamente pop che negli spazi dove, magari, c’è la necessità di alzare un po’ i watt della chitarra. E il tutto, riarrangiato secondo un personalissimo flusso di pensieri, tanto evocativo quanto ordinato e ben compatto: non ci sono fronzoli, ma nulla è tuttavia lasciato al caso.

E quindi, la risacca silvestre del nervoso incalzare di “From Nothing To Nowhere”, dai toni vagamente shoegaze, secondo il preciso modello di una chitarra in sottofondo, si alterna ad incursioni nei territori di Isaac Brock e topi modesti al seguito (sentirsi, ad esempio, l’apertura del teatrino funambolico di “Blue Harvest”, che ricalca alcuni passaggi di “Dashboard”). Ma c’è spazio per ogni tipo di influenza e/o citazione: spruzzate espressionistiche che baluginano nello srotolarsi dell’affascinante ballata “Bouquet”, con tanto di vocoder iniziale, o ancora il rock, un po’ roots, un po’ blues, dei tortuosi e riusciti controtoni di “Devil You Know” – un vero e proprio omaggio alla vita in strada? –.

Più si avanza con l’ascolto, e più si riesce ad apprezzare l’album in ogni sua più piccola sfumatura: “Good To Sea”, ad esempio, con l’organetto in sottofondo, è un refresh beatlesiano che alla prima audizione può non essere compreso appieno, ma che acquista valore pian piano. Equazione inversa, invece, per il collage confusionario di “Subbing For Eden”, un tentativo di mettere assieme il meglio dei pezzi precedenti e mixarlo all’ennesima potenza, sotto forma di semi-ballata circolare. Una prova che all’inizio fa dondolare la testa a ritmo di musica ma che, dopo ripetuti passaggi, perde tutta la fragranza sprigionata originariamente.

La prova del 9 del disco si deve ricercare, in ogni caso, nel brano più ricercato dell’intero lavoro, il default pop rock di “Barnes”, capace di catturare all’istante con i suoi ricercati cesellamenti melodici, la sua ritmica regolare ma pressante, il suo cantato introspettivo che, talvolta, si schiude in un bellissimo saliscendi armonico. Ovvero: gusto per la melodia e capacità cantautoriale, fuse assieme nello stesso pezzo.

Autumn Of The Seraphs” è certamente un album da avere, non solo per il suo indubbio valore, ma anche come importante testimonianza di un gruppo che, seppur misconosciuto e bistrattato dai più, sta certamente riuscendo nel tentativo di plasmare e reinventare, magari proprio dall’interno, la staticità pop dell’ultimo decennio. Ne abbiamo bisogno, tutti. Onore ai Pinback, dunque.

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 7 voti.

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gerogerigegege (ha votato 7 questo disco) alle 20:03 del 19 settembre 2007 ha scritto:

Proprio così Marco!

Rob Crow non smentisce mai;

il disco indie-pop più digeribile del 2007...

SoulBrother (ha votato 8 questo disco) alle 10:10 del 28 settembre 2007 ha scritto:

Gran disco: radici solide nell'indie rock anni '90, linee melodiche che mi ricordano alcune delle pagine migliori di quegli anni, tra i tanti Sleater Kinney e Guided By Voices, non un pezzo brutto e una sequenza di pezzi iniziale da brivido. Una dei segreti meglio nascosti dell'indie pop-rock.

Truffautwins (ha votato 8 questo disco) alle 3:06 del 8 dicembre 2008 ha scritto:

Si

Non sarà il massimo dell'originalità, ma si fa ascoltare, tutto!