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R Recensione

6/10

The Atomic Bitchwax

The Local Fuzz

Jimi Hendrix, lapalissiano dirlo, non è certo morto per del fumo. Eppure, in quasi tutte le foto che lo ritraggono, ce n’è un po’. Lui sta nascosto negli studi di registrazione. Lì, tranquillo e pacifico, vicino alle lampade rosse, con la chitarra in mano, il sorriso sulla faccia, le ombre che danzano sui ricci. Ovunque nuvole colorate. Nella mente annebbiata il disco da incidere, o forse altri cinque diversi. Un quadretto idilliaco. Così suonavano le jam degli anni ’70, e ne sono convinto anch’io. Senza la preoccupazione di definire tempi, ruoli, scadenze. Qualche strumento e qualche amplificatore era sufficiente per dar vita ad un’autocreazione musicale nella quale il suono stesso si prendeva oneri ed onori di esigere una forma adeguata per il contesto, di segnare la strada da costruire nell’immediato. D’altro canto, se la psichedelia è proiezione mentale alterata sopra tutto, perché costringerla dentro canzoni? Meglio libera, assoluta, sciolta da vincoli. 

Dire che dentro “The Local Fuzz”, episodio quinto a marca Atomic Bitchwax (sorta di supergruppo formato da alcuni tra i membri più acuti dell’intelligencija stoner, primo fra tutti il batterista Bob Pantella dei Monster Magnet), vi sia il marchio hendrixiano è riduttivo da una parte, quasi offensivo dall’altra. Sarebbe irrispettoso non riconoscere al power trio il suo più grande merito: aver cercato di sintetizzare, in una sola, ciclopica canzone, l'intero scibile hard rock prodotto in decenni e decenni di sudore, passione, inventiva, dai primi timidi passi sino ai revival recenti, passando per i grandi classici e le seconde linee di peso. Se tutte le strade portano a Roma, insomma, non tutte le distorsioni trascinano ai polpastrelli del ragazzotto di Seattle. Quando il cronometro segna la fine dell’avventura, a 42:18, nessuno manca all’appello. Inutile fare la lista dei soliti noti. Un quarto blues elettrificato e machizzato, un quarto tradizione hard via southernboogieshake, un quarto ribassamenti sabbathiani, l’ultimo quarto anarchia sonora in acido: con questi ingredienti sono stati impastati milioni di dischi. Ritrovare il marchio caratteristico di ciascuno in un’unica caldera ribollente strania all’inizio, lasciando in seguito subito spazio alla pura fruizione godereccia dell’ascolto disinteressato. 

Pregio del lavoro è riuscire a non annoiare mai. L’abilità degli Atomic Bitchwax nel serrare le cerniere delle varie influenze è, a tratti, stupefacente. Questo consente il susseguirsi inarrestabile di decine e decine di riff, cosmiche sventagliate di suono, senza che si percepiscano salti e sconnessioni tra i vari tronconi: un plauso alla capacità tecnica dei musicisti, senz’altro, ma un occhio di riguardo dovrebbe andare anche alla produzione e all’intelligenza tattica del gruppo nel disporre i vari materiali. Negli anni passati andava per la maggiore il termine “bignami”: niente di più adatto per definire “The Local Fuzz” ed il suo scopo, encomiastico sino a sfiorare il collezionismo feticista. Chitarra, basso, batteria e organetto tratteggiano i contorni di un monumento ad uno stile di vita, ad un modo di essere, ad un suono immortale e periodicamente sviscerato, mediante nuove connessioni e l’avvento di giovani leve. Senza la consapevolezza dell’esplicito omaggio – e, con una punta di malizia, di una nuova esposizione virtuosistica, perché no – il disco verrebbe accantonato nell’immediato, riposto nel cestino delle cose inutili. 

Consigliato agli appassionati del genere, a chi vorrebbe un veloce riassunto degli imprescindibili capitoli del rock duro e a chi, da autodidatta, cerca nuove vie d’espressione col proprio strumento.

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