R Recensione

6/10

Figurines

When the Deer Wore Blue

È uscito il terzo album dei Figurines. Il mondo ringrazia questo evento atteso con fervore da ogni bravo pellegrino musicale danzante. Naturalmente il sottoscritto non può che essere contento di questa uscita, specie dopo aver ammirato la notevole maestria tecnica del gruppo in Skeleton. Aldilà delle facili ironie, c’era una certa curiosità (almeno da parte del sottoscritto) riguardo a questo disco: chiudendo la recensione di Skeleton ci si chiedeva se i nostri sarebbero riuscito a crearsi una propria identità musicale oppure avrebbero continuato ancora a lungo a spacciarsi per i cugini di campagna dei Built to Spill. Non che fosse un quesito da togliere il sonno per carità, però si può dire che un po’ di rabbia i Figurines l’avevano fatta venire a suo tempo, perché il gruppo danese mostrava di avere buone potenzialità nel campo sterminato dell’indie-pop ma sembrava non voler rischiare di valorizzarle preferendo assestarsi su un suono di facile successo privo di ogni ambizione artistica.

Ecco perché sono contento di poter dire che When the deer whore blues è stata un’ottima smentita da questo punto di vista: il cantante Christian Hjelm continua a scimmiottare saltuariamente Doug Martsch (Hey girl, Bee dee) ma in linea generale sembra che il gruppo sia riuscito a trovare un proprio percorso autonomo in cui i fattori più prossimi sono i Modest Mouse più vellutati, la freschezza degli Shins e le strutture artigianali dei Built to Spill.

Sembra inoltre che i ragazzi danesi si siano fatti una bella immersione nel pop-rock 60s divertendosi a citare qua e là Beach Boys, Kinks, Beatles e addirittura Syd Barrett (sentire l’inizio di Half awake, half aware), senza esagerare però, piazzando un coretto alla Wilson qui e una melodia alla McCartney là, lasciando all’ascoltatore il gusto di scoprire questi graziosi inserti.

Altra svolta è la parziale messa al bando di ritmi gioiosi e allegri che trionfavano nei primi due dischi. Non so se si possa parlare di maturazione personale o artistica ma in quasi ogni brano (The air we breath, Drove you miles, Good old friends, Angels of the Bayou) si respira un’atmosfera quasi tragica resa impeccabilmente da un tono languido e malinconico che riporta alla mente i Decemberists. Perfino nei pezzi più vivaci come Childhood verse e Let’s head out si ha l’impressione di sentire degli Shins votati ad una vena drammatica e romantica.

Drunkarsd’ dream poi è la canzone che non ti aspetti, con il suo riff trascinante imperniato su un massiccio motivo blues-rock.

Purtroppo non c'è rosa senza spine e non si può non notare come alla lunga le composizioni tendano a ripetirsi e appiattirsi su un suono spesso banale e monotono. È così che il disco cala bruscamente nella seconda parte e le finali Cheap placet to spend the night e Lips of the soldier risultano difficili da digerire.

Insomma: la terza fatica dei Figurines non vi salverà dalle tenebre della perdizione e non vi farà gridare al nuovo messia, ma sicuramente resta un ascolto piacevole e moralmente accettabile (mi riferisco ovviamente al confronto con Skeleton), in linea con un indie-pop melodico ben curato e maturo, adatto per l’autunno ormai imminente.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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