Opeth
Pale Communion
Lirreversibilità dello status artistico a cui sono giunti gli Opeth del 2014 è tale che lamentarsene ancora, e per di più darlo a vedere, è vano, quando non addirittura pesante. Non aiuta sicuramente il tappeto di dichiarazioni, cosparso di veleni e cocci, che il leader Mikael Åkerfeldt ha avuto modo di rilasciare nel periodo immediatamente successivo alluscita del fallimentare Heritage (assai mediocre nel songwriting e modesto nelle vendite): lodierna scena estrema non vale nulla, il repertorio pre-Watershed non verrà più suonato perché nettamente inferiore al nuovo, se facessimo oggi un disco death metal sarebbe solo growl e blast beat Niente di più che le boutade di un (ormai) veterano e della sua nostalgia per si stava meglio quando si stava peggio, uno dei più rinomati guru del neo (?) progressive, lamico e il sodale dellinconsistente intelligenza mediatica di Steven Wilson, lorganizzatore del Roadburn più conservativo di sempre, il fan sfegatato di Genesis e Yes. Ma la strada è stata segnata ormai troppi anni fa e a nulla varrebbe tornare indietro. Si guarda avanti, allora, con Pale Communion, un disco che ancor prima di girare sul piatto parte svantaggiato, pagando il fio, concettuale, di tutti gli errori e le incertezze accumulatesi negli ultimi tempi.
Perché gli Opeth hanno deciso, con Heritage, di sbattere la porta in faccia alla loro incubazione e marca stilistica prorompente, il death? Allepoca indicavamo, in maniera del tutto essenziale (e forse impropria), il semplice declino artistico. La verità è lungi dallessere così semplice, e fotografa un quarantenne (li ha compiuti lo scorso 17 aprile), indiscutibile ed indiscusso padre padrone di una band sempre più creata a sua immagine e somiglianza, alle prese con i conti presentatigli da una stabilità fisica incrinata. Chi ha avuto occasione di sentire dal vivo, nellultimo biennio, i vecchi pezzi (per vecchi indichiamo semplicisticamente i brani scritti fino al 2005, anno del buon Ghost Reveries), si sarà sicuramente accorto della fatica titanica di Åkerfeldt nel rendere quel growl fino a poco tempo prima così peculiare, a lui così congeniale: della disparità di tiro tra una sezione ritmica ancorata alle accelerazioni del passato Martin Axenrot è batterista dal tocco e dal pedigree marcatamente metallico ed una costruzione melodica chitarristica che, non ce ne voglia il bravo Fredrik Åkesson, dipende esclusivamente dalle bizze del grande leader. Gli Opeth si sono evoluti se di evoluzione si può parlare per volontà e necessità: Pale Communion è un secondogenito cercato ed inevitabile.
Di buono, rispetto ad Heritage, ci sono le canzoni: qui dentro, a differenza del precedente capitolo, almeno due (e mezzo) di veramente buone, costruite con una classe non completamente offuscata dal mestiere. Deve avere aiutato e lo si veda come sorta di effetto collaterale la maggiore esperienza specifica fruttata nellambito. La migliore è la più breve, Goblin, omaggio dichiarato ai nostri artigiani della colonna sonora: il lick flangerato di base germina dapprima in uno squisito arabesco funk memore degli stacchi di The Lotus Eater, per poi scheggiarsi in un intreccio strumentale da hard boiled. Lo spettro sonoro di River è catalizzato da un arpeggio cristallino che ha la pienezza di certa umida, silvestre americana (ispirazione confermata anche dal primo assolo, tra Zeppelin e Tom Petty): nuovamente, poi, lHammond vintage di Joakim Svalberg imprime un profondo cambio di marcia al pezzo, dirigendo sbarazzino un tetro duello chitarristico, come una Hangar 18 dei Megadeth coverizzata dentro Blackwater Park (ottima, in ogni caso). Sinvola bene, per quanto artificialmente cervellotico, limpasto di tritoni mefitici e bassi risonanti di Eternal Rains Will Come, quanto di più vicino al prog metal gli Opeth abbiano mai scritto: un vero peccato, però, che tra lallazioni di maniera, pianoforti wilsoniani e melodie tanto lambiccate quanto prevedibili (tornano alla mente le atmosfere resinose degli White Willow), il brano finisca per perdere ogni spinta.
Seppur marcatamente più inventivo di Heritage, Pale Communion ne condivide alcuni difetti capitali. Grave sul piano teorico, inutilmente gravoso su quello pratico, è il tentativo di standardizzare, in forme e corrispondenze ben precise, un genere originariamente nato per rifulgere di glorie pionieristiche. In Cusp Of Eternity (il classico singolo opethiano), il riciclo di standard e stereotipi, propri e altrui, assume proporzioni a tratti fastidiose. Elysian Woes cerca di giocarsi la strada dellelegia intimista, ma uninterpretazione sofferta e sopra le righe e, soprattutto, la distanza qualitativa da gemme decadenti quali Benighted o Harvest fanno apparire il risultato meno che grottesco. La ridicola pretesa di voler suonare heavy a tutti i costi, senza possedere né le caratteristiche né la spinta necessarie per farlo (il che distingueva, in senso peggiorativo, Heritage da Damnation), era una costante del disco precedente, qui fortunatamente e razionalmente messa in secondo piano: solo gli archi di Voice Of Treason, volgarmente interpolati per aumentare la prospettiva della scansione ritmica, tagliano un vestito innaturalmente grande per un brano incomparabilmente minore, ravvivato sul finale solo da un valzerino notturno per voce e Moog. A raffreddare i tizzoni di ogni entusiasmo residuo è, tuttavia, la noia. Gli Opeth non hanno forse mai suonato così bene, ma tanta competenza è messa al servizio di un prodotto che suona professionale nel senso deteriore del termine, svuotato di passione e sentimento. Un tempo ci avrebbero sorpreso le infiltrazioni soul, che fanno capolino più volte nella seconda metà della lunga Moon Above, Sun Below, una suite progressive vecchio stampo che alterna con disinvoltura arpeggi acustici, glasse tastieristiche e distorsioni più o meno accentuate. Oggi, invece, limpressione che non vuole abbandonarci è quella di avere sotto il naso un prodotto da laboratorio: raffinato quanto si vuole, ma fine a sé stesso.
La sufficienza è raggiunta, ma Åkerfeldt dovrebbe erigere altari ad un passato glorioso che lo tiene in vita e che, nel 2014, permette ad un disco assolutamente nella norma, come Pale Communion, di essere notato, ascoltato, finanche sviscerato.
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