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R Recensione

6,5/10

Dakota Suite & Quentin Sirjacq

There Is a Calm To Be Done

Alla soglia dei quaranta e a quindici anni di distanza possiamo ammetterlo. Il periodo del post-rock non è stato così meraviglioso come sembrava. O meglio, il periodo durante il quale il post-rock dettava legge, influenzando anche chi non ne faceva parte. E’ stato un genere fagocitante, così indefinito da generare confusione, da includere al suo interno mezzo mondo musicale dell’epoca. Se non si fosse definitivamente arrotolato su se stesso come un cane con un bocconcino legato sul culo, adesso saremmo tutti morti di noia. Non saremmo sopravvissuti di solo ambient-rock, chitarre circolari e rintocchi di pianoforte. E poi che mondo sarebbe un mondo in cui nessuno canta? Se siamo ancora vivi lo dobbiamo agli Explosions in the Sky, ai 65daysofstatic. Gente che ha definitivamente annegato quel mostro nei suoi stessi clichè, risvegliandoci dal torpore di quegli strumentali eterni.

 

C’è stato un periodo, diciamo a cavallo tra i due millenni, nel quale anche i Dakota Suite li trovavi nei negozi sotto l’etichetta “post-rock”. Era una falsità bella e buona, ma un amico che possedeva un negozio di dischi mi confessò che era uno stratagemma comune nel periodo che lui chiamò “dacci oggi il nostro Slint quotidiano”. La gente voleva post-rock, e i negozianti erano lì per darglielo. Andate a recuperare qualche vecchia rivista musicale e nella sezione post-rock troverete di tutto, dai Black Heart Procession a Will Oldham. Da quando i Dakota Suite sono tornati sulla scena (ovvero dal 2007), il post-rock non si nomina più, e i dischi di Chris Hooson e soci li potrete trovare alla voce “contemporary classical”, “modern folk” o al massimo “sadcore” (giustamente, direi). Comunque sia, a noialtri delle etichette non ce ne frega una mazza, anche perché nella sostanza la musica di questo quartetto di Leeds non è cambiata molto. L’uso delle chitarre acustiche si è ridotto a qualche tenue arpeggio e il pianoforte è diventato elemento portante, complice anche la coabitazione con il pianista francese Quentin Sirjacq. La vicinanza con il genio di Mark Kozelek, così evidente in passato, è solo filtrata attraverso una sensibilità jazz e quella rinnovata voglia di sperimentare suoni e strutture che ha portato i Dakota Suite a pubblicare dieci dischi nell’arco di quattro anni scarsi. Una media che neanche lo stesso Mark Kozelek potrebbe eguagliare.

A noi la cosa fa piacere, soprattutto quando partorisce folate di malinconia come “In the stillness of the night”, vero e proprio capolavoro di lentezza e tristezza, un macigno nero posato sui nostri cuori con la delicatezza di chi sa farci piangere con i silenzi. E poco importa se ogni tanto l’istinto di socchiudere gli occhi prende il sopravvento (“Ask the dusk”, “I miss the dust”), tanto noi – dall’alto della nostra decennale esperienza – sappiamo bene dove andare a cercare le nostre ballate alla codeina (“This is my way of say that I’m sorry”), le nostre strutture circolari da cerotti arabi (“Flat seat”), le nostre progressioni strumentali alla Mogwai (“Mogwai” non si traduce, ma dovevo citare la meraviglia di “Committing to uncertainty”), il nostro folk da pittori della casa rossa (“The world touches me too hard”), il nostro jazz da letto (“Dronning maud land”, ma qui la traduzione è davvero per pochi) e quello da costellazione (“The tears that blind us to the space”). 

Cari negozianti e cari scribacchini, siete avvisati. Potete nasconderlo anche in mezzo alla sezione hardcore, tra i D.O.A. e i Dead Kennedys. Tanto noi, un disco così, lo troveremmo comunque.

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