R Recensione

7/10

Tinariwen

Imidiwan: companions

Umberto Bossi ne andrebbe fiero. Potrebbe anche prendere i Tinariwen come modello per l’emancipazione della “sua” Padania. Potrebbe, addirittura, adottare la musica di “Imidiwan: companions” come inno nazionale (o regionale, provinciale, comunale, condominiale …). Perché i Tinariwen sono l’emblema del localismo, del regionalismo, dell’identificazione di un popolo in base alle tradizioni, alla cultura orale, al senso di appartenenza derivante dalla somiglianza dei membri che lo compongono e a prescindere dai confini geografici.  

I Tinariwen sono dei combattenti Tuareg, o meglio, Tamashek. La storia dei Tamashek è la storia di un tentativo continuo di autodeterminazione. Dalla dominazione coloniale francese, dagli Arabi, dallo Stato del Mali, dallo Stato del Niger. Il popolo Tamashek è sopravvissuto tra le sofferenze, in perenne conflitto contro chi avrebbe voluto cancellarne la libertà e forse anche l’esistenza. Così Ibrahim Ag Alhabib si ritrovò fin da bambino a dover fuggire continuamente. Prima in Algeria, per sottrarsi alla repressione del governo del Mali che aveva appena assassinato suo padre, poi in Libia, rifugiato nei campi di addestramento del colonnello Gheddafi.  

La grande passione per la musica fece guadagnare ad Ibrahim un nome di battaglia assai strano: “ragazzo ragamuffin”. Fin dagli anni ’60 il giovane Ibrahim si aggirava per gli accampamenti Tamashek suonando, con la sua chitarra autocostruita, i blues di Alì Farka Toure ed i brani tradizionali Tamashek. Ben presto, con l’aiuto di due compatrioti profughi come lui (Alhassane Ag Touhami e Inteyeden Ag Ableine), fonda il primo nucleo dei Tinariwen (“deserti” in lingua Tamashek) ed inizia ad esibirsi in veri e propri concerti.  

Dopo la pacificazione con il Governo del Mali (ottenuta dopo sanguinosi scontri durante i quali – secondo la leggenda – Ibrahim e compagni si difesero “con il kalashnikov in mano e la Fender Stratocaster dietro la schiena”), i Tinariwen furono finalmente liberi di dedicarsi alla musica. Il resto della storia è pressoché noto, anche perché il connubio tra rock berbero e blues del deserto contenuto nel primo album “The Radio Tisdas Sessions” (2002) si guadagnò elogi eccellenti (Robert Plant, Carlos Santana, Thom Yorke) e l’attenzione di critica e pubblico europei.  

Imidiwan: companions” è il quarto album ufficiale dei Tinariwen, ed in un certo senso rappresenta un ritorno a casa. O meglio, un ritorno al deserto. Anche perchè una casa, per come la intendiamo dalle nostre parti, questi musicisti-combattenti non sanno cosa sia. L’album è stato interamente registrato nel piccolo villaggio di Tessalit, ovvero in mezzo al Sahara, tra l’Algeria ed il Mali. Lo sensazione di “ritorno al passato” è amplificata dalla simpatica immagine di copertina, che riprende l’artwork del precedente album “Aman Iman: water is life” (2007) ma ritrae i componenti della band decisamente “ringiovaniti”.  

Di conseguenza, la musica di “Imidiwan: companions” rinuncia spesso agli accenti rock delle precedenti produzioni (il già citato “Aman Iman” e soprattutto il secondo album “Amassakoul” (2004)) per riconciliarsi con il desert blues che caratterizzava l’acclamato esordio. Via la batteria, innanzitutto, il ritmo viene scandito con le mani: mani che si producono nel più classico degli handclappin’, mani che fanno vibrare percussioni della tradizione Tamashek e mani che colpiscono le corde delle chitarre. Pur facendo ampio uso delle chitarre elettriche (strumento ormai “obbligatorio” anche in Africa), “Imidiwan: companions” suona come un disco acustico perché acustico (nel senso di “intimo”, “raccolto” e, verrebbe da dire, “sereno”) è il senso generale che traspira da queste tredici canzoni.  

Imidiwan Afrik Tendam” è una morbida apertura corale, cantata da Ibrahim con il supporto delle tradizionali voci femminili. L’influenza del rai e del chaabi marocchino nell’impostazione vocale genera un leggero effetto world-music. Ma non crediate che i Tinariwen abbiano perso lo spirito rock che li ha resi celebri. “Lulla” è puro desert blues condotto da un basso elettrico profondo e vibrante, mentre in “Tenhert” il cantato di Ibrahim assume modalità da spoken word. “Lulla” e “Tenhert” sono due pezzi micidiali, posti all’inizio dell’album quasi a voler ribadire la matrice rock del sound dei Tinariwen. Dieci minuti scarsi duranti i quali ti viene da pensare che il blues sia nato proprio qui, tra le dune del deserto.  

Il resto dell’album non è da meno, sia nei frammenti più elettrici (“Tahult In”, “Intitlayaghen”) che in quelli nei quali si perfeziona il già citato “ritorno alle origini”, con momenti di trance acustica (“Ehnseqi Ehad Didah”, “Assuf Ag Assuf”) e brani strettamente legati alla tradizione Tamashek (“Tamudjeras Assis”, “Kel Tamashek”). Un disco che si snoda con una forza stupefacente, costantemente guidato dal suono delle (numerosissime) chitarre e dal costante (e tipicamente africano) dialogo “call and response” tra voci maschili e cori femminili.  

Perché il prodigio dei Tinariwen è tutto qui. È la vitalità di una musica nomade, polverosa, indisciplinata e fiera come il popolo Tamashek. Una musica, e un popolo, abituati ad abbattere le recinzioni ad ogni costo, ad onorare le proprie tradizioni rispettando quelle altrui, a considerare la diversità come fonte di ricchezza. Questo però a Umberto è meglio non farlo sapere.

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Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 5 voti.
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cielo 10/10
REBBY 6/10

C Commenti

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Marco_Biasio (ha votato 7 questo disco) alle 11:45 del 7 settembre 2009 ha scritto:

Meglio il disco precedente, che aveva una perla assoluta come "Matadjem Yinmixan", ma i Tinariwen restano sempre e comunque dei grandissimi fighi. Forse è meglio che Umberto non sappia nemmeno questo. Recensione ultra!

fabfabfab, autore, alle 14:59 del 7 settembre 2009 ha scritto:

RE:

Grazie Marco! Sono con te su "Amassakoul" ...

Marco_Biasio (ha votato 7 questo disco) alle 11:45 del 7 settembre 2009 ha scritto:

Dimenticavo: chi non ha "Amassakoul" è gay. E non ce l'ha nemmeno duro.

target alle 22:55 del 7 settembre 2009 ha scritto:

Accidenti a te, marco, quella volta mi avevi passato "Aman Iman"! In ogni caso questi sono dei monumenti e bisogna ringraziare Fabio per averceli proposti e averci ricordato la loro storia: mentre l'indie-rock made in usa/uk esibisce sempre più spesso influssi afro (Vampire Weekend, Fool's Gold, Fair Ohs), fa bene affondare nell'africa vera. Questo lo ascolterò a breve! (vero, marco?...)