Sigur Rós
Valtari
Della serie cose che prima mi piacevano e adesso non sopporto (e contemporanemente della serie: e chissenefrega?): il tonno in scatola, Sabina Guzzanti e la sua aria da maestrina, Fabio Volo e la sua simpatia, i dischi tuttiuguali della Morr Music. Sarà che i gusti cambiano ogni sette anni - una volta me l'ha detto anche un medico - eppure è stupefacente come a distanza di poco tempo l'amore iniziale possa scemare con tanta freddezza. Questo per dire che quando i Sigur Rós schizzarono come un gejser dal calderone post rock di fine anni '90, nessuno rimase indifferente a quel suono così compatto, a quelle atmosfere gelide, a quelle melodie celestiali. C'era tutto il contorno: il fascino dell'Islanda, il cantante gay con un occhio di vetro, gli apprezzamenti di chiunque (da Madonna ai Rage Against The Machine); ma ci fu - soprattutto - una coppia di dischi davvero memorabile: Ágætis Byrjun, che codificò un suono nuovo, trapiantando il post rock in un ambient mistico e sognante, e ( ), che ne dilatava le forme e ne perfezionava i suoni.
Certo erano altri tempi, queste sonorità dettavano legge e anche solo avere un cantante in formazione era un azzardo. Passato l'entusiasmo iniziale, i Sigur Rós hanno proseguito una carriera di buon livello, in equilibrio tra il desiderio di smarcarsi da questo suono così caratterizzante e la volontà di non perdere le fila del discorso. Takk... ma soprattutto il successivo Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust contenevano tentativi di rinnovamento a base di innesti ritmici (Gong, Gobbledigook) e brani cantabili (Hoppipolla, Við Spilum Endalaust"), ma si percepiva che non poteva essere quella la strada per il futuro. In entrambi i dischi, infatti, buona parte dei brani riproponeva le caratteristiche già ampiamente codificate nei due best-sellers precedenti. E così, con il loro sesto album, i Sigur Rós decidono di archiviare ogni velleità di innovazione e si reimmettono compostamente nel binario da cui erano partiti.
Risultato: nei primi 13 minuti non succede assolutamente nulla, Ég Anda è un'introduzione eterna, statica e minimale; la successiva Ekki Múkk recupera la consueta vocalità bianca del cantante Jónsi ma non riesce a metterla al servizio di una melodia. Il pezzo è infatti un suggestivo ma monocorde paesaggio nordico, non accostabile ai fasti di ( ). Varúð è in pratica l'inizio e la fine del disco, con le sue forme sinusoidali e un crescendo solenne che fa da apertura ad un finale carico di intensità elettrica, tra fiati, pianoforte e chitarre. La sensazione di deja-vu (periodo Ágætis Byrjun) è evidente, ma il brano dimostra che gli islandesi sanno ancora come rivolgersi al proprio pubblico. Dopo un nuovo tentativo - questa volta poco riuscito - chiamato Rembihnútur, Valtari ripiega in soluzioni ambient minimaliste, spesso strumentali (il carillon di Varðeldu è a dir poco soporifero) e autoreferenziali (c'è praticamente il solo Jónsi in Dauðalogn); per poi chiudere con due brani che (probabilmente) mostrano le intenzioni future della band: ambient minimalista, si è detto (Valtari), e quell'attitudine da classica contemporanea (Fjögur Píanó, adatta come sottofondo per un documentario sulle camole del miele) che farà gola agli appassionati dei vari Balmorhea, Ólafur Arnalds e compagnia sbadigliando. Perché, sebbene sia calcolato, il rischio è quello.
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