V Video

R Recensione

8/10

Jeff Parker

Suite For Max Brown

A George, Breonna e a tutte le altre vittime incolpevoli dell’attracco della Mayflower

Mi sono accorto solo all’ultimo istante che Steven Arroyo di Pitchfork, appena qualche mese fa, aveva già pensato ad un attacco simile a quello con cui avrei voluto introdurre questo pezzo su Jeff Parker. Cito testualmente dalla sua bella recensione di “Suite For Max Brown”: “Jeff Parker always writes parts that sound unassuming at first listen and unavoidable by the fifth”. Nella mia mente di ascoltatore, questo teorema si applica in modo particolare a tre passaggi. Il primo: la fulminea epifania solistica jazz rock in “Build A Nest”, un rumoroso happening che, nell’arco di dieci secondi appena, perfora i tessuti comunicanti del brano e apre una meravigliosa finestra di senso superiore con il tocco di chi, in una parete di granito liscio, riesce a distinguere i contorni invisibili di un portone celato alla vista. Il secondo: il candore mistico degli arpeggi elettrici che, come svelti da un blocco di materia grezza, sembrano prendere forma dal drone filiforme che attraversa i centri ritmici del jazz-hop di “Fusion Swirl”. Il terzo: la grazia atemporale di “Gnarciss”, quasi un piccolo estratto vagante per una perduta composizione da big band (per inciso: Paul Bryan al basso, Josh Johnson al sax alto, Katinka Klejin al violoncello, Rob Mazurek alla tromba, Makaya McCraven alla batteria…) che, disarticolato dal suo contesto originario, si eleva allo status di gemma soul jazz riarrangiata tra svolazzi retrò-pop e cubature r’n’b (vi compaiono, non a caso, elementi di “Black Narcissus” del quintetto di Joe Henderson).

A più di qualcuno il paragone sembrerà improprio, ma il solo chitarrista che, nel multiverso del jazz contemporaneo, mi sentirei di accostare a Parker (nel metodo: non nel merito) è Nels Cline. Ho già avuto modo di esprimerlo più volte, ma questa, mi sembra, è una buona occasione per riproporre il discorso, sotto forma di metafora: ascoltarne all’opera le evoluzioni strumentali è come approcciare le prime pagine, arruffate e apparentemente incomprensibili, di un romanzo postmoderno, continuare nella lettura e accorgersi con sommo stupore, alla fine del viaggio, di come ogni elemento, imprevedibilmente, abbia concorso a formare un quadro di assoluta perfezione logica. A differenza degli autografi solisti di Cline, tuttavia, quelli di Parker (che torna al formato lungo a distanza di quattro anni dalla rivelazione di “The New Breed”, prima uscita per i tipi illuminati di International Anthem) presentano un approccio alla composizione che si avvicina più al mixtape of consciousness in perenne fieri delle opere di Makaya McCraven che alla reinterpretazione delle scuole avant jazz degli anni ’80 e ’90: un torrente informe che scaturisce da una fonte sconosciuta e che solo in un secondo momento, con il taglia e cuci dello studio che riposiziona alcune parti, ne amplia delle altre, ne riduce delle altre ancora, ne crea infine delle ultime (per partenogenesi o per collegamenti impronosticabili), assume la forma definitiva, fissata su supporto.

Che poi, “forma definitiva”… quantomeno un azzardo, vista la quantità esagerata di invenzioni e snodi inaspettati che ancora si riescono a scovare dopo dieci, quindici, venti ascolti. L’impressione, piuttosto, è che il materiale di “Suite For Max Brown” venga di volta in volta plasmato dallo sguardo critico dell’ascoltatore nell’esperienza singola e irripetibile della sua fruizione, incrociando a diverse altezze e con diversa intensità il bellissimo sguardo della madre di Parker (immortalata, nella sua delicata posa di adolescente piena di belle speranze, nello scatto prestato a cover del disco). È precisamente in questo concetto chiave, di perpetuo divenire, che risiede il carattere intimamente politico di “Suite”: una costruzione piramidale le cui facce siano vorticanti reificazioni culturali dei concetti di identità, innovazione e ibridazione, un movimento musicale scomposto per comodità in parti che sono, a loro volta, la somma indissolubile delle molteplici, singole manifestazioni artistiche della galassia afroamericana. Un mondo in cui convivano l’Otis Redding di “The Happy Song (Dum-Dum)” così come lo ricordi la mente samplizzante del Parker bambino (“C’mon Now”) e il rilucente, impressionistico Coltrane di “After The Rain”. Una galassia in cui le puntute, acide esplorazioni chitarristiche tra le pieghe della sognante melodia lounge di “Del Rio” abbiano la stessa dignità di parola delle convoluzioni ambient-tortoisiane di “Metamorphoses”. Un cosmo, infine, in cui i sordi bassi di “Fusion Swirl” vengano trapiantati nella fusion-funk d’acciaio di “Go Away” (o è forse il contrario? quale composizione precede e quale segue?) e a fare da controcanto all’umbratile chitarra jazz di “3 For L” (con le percussioni onomatopeiche di Jay Bellerose utilizzate in chiave quasi stallinghiana) si pongano le zigzaganti traiettorie hip-bop della conclusiva “Max Brown”, in cui il sax di Johnson e la tromba di Nate Walcott disegnano fraseggi a getto continuo sul beat granitico di Jamire Williams, riducendosi infine a piccoli scoppi, ricorsivi segmenti morse disciolti in un amniotico andante chitarristico.

Everyone moves like they’ve some place to go / Build a nest and watch the world go by slow”, sillaba in slow motion la giovane figlia di Parker, Ruby, in “Build A Nest”, quasi a dialogare a distanza con la versione diciannovenne della nonna. Il movimento del mondo catturato in una diapositiva di resistenza culturale. “Suite For Max Brown” è un commovente capolavoro. 

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.