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R Recensione

10/10

Duke Ellington

Far East Suite

Conoscete il suono della jungla?

Quello che vi investe con i suoi mille aromi e colori, quello violento, sinuoso e carnale, ricchissimo di sfumature, imprevedibile, incandescente e vivace, ma anche capace di incupirsi di malinconia?

Ecco, parlando di jazz, colui che meglio si è avvicinato a musicare e tradurre in sette note il suono della jungla è certamente Edward Ellington, meglio noto come Duke.

Non credo che un simile personaggio abbia bisogno di troppe presentazioni: The Duke è colui che ha saputo introdurre l’arte bianca della composizione nel mondo del jazz, da sempre molto più avvezzo ad un’altra forma espressiva (quella dell’improvvisazione); ma soprattutto, The Duke è con ogni probabilità il numero uno di tutto il novecento (ed in ogni caso, il titolo può essergli conteso da poca, pochissima gente); come “The Bird” Charlie Parker, come Satchmo, come Mingus, come Coltrane e forse più di loro, è la massima espressione del genio musicale afro-americano, il musicista che meglio di chiunque altro ha saputo avvicinare la feroce e ruvida espressività del blues, con i suoi colori accesi e le sua sferzate emotive violente, all’austerità contemplativa e colta della musica europea.

The Duke nasce quando si incontrano due universi musicali, quello bianco e quello afro-americano, e miracolosamente reinventa entrambi.

Peraltro, a differenza di quasi tutti i grandi e non solo nel jazz, Ellington ha espresso il suo genio nel corso di una carriera lunghissima che di fatto non trova eguali (qui senza ombra di dubbio): nato a Washington nel 1899, Ellington inizia a creare jazz al Cotton Club di New York già nel corso degli anni ’20, e prosegue poi la propria avventura per oltre quattro decenni. Maneggiando con cura e maestria senza pari il ragtime e lo swing, e precorrendo poi le grandi rivoluzioni del jazz, il bop degli anni ’40 ed il free degli anni ’60.

Il tutto con un approccio personalissimo ed inimitabile (giusto Mingus si avventurerà con altrettanta grandeur nei territori esplorati dalla sua orchestra).

A riprova di quanto sopra, si ascolti questa inimitabile “Far East Suite”, pubblicata (incredibile ma vero!) nel 1967, quando si è in piena epopea hippie e San Francisco pullula di ragazzini con i fiori fra i capelli. Quando il free-jazz è un realtà incontestabile da molto tempo.

E' trascorso un secolo dai tempi del Cotton Club e dalla gloriosa era dello swing: eppure il Duke è ancora vivo e vegeto, ed anzi, con la collaborazione di Strayhorn (genio della musica il cui apporto viene troppo spesso sottovalutato, quando è stato l’unico in grado di assecondare le invenzioni del Duke), da alle stampe questa suite, da annoversarsi senza dubbio fra suoi più grandi capolavori.

Trattasi di suite dedicata per intero alle impressioni ricavate da un viaggio nell’estremo oriente, nel corso del quale il Duke si avvicinò ad alcuni moti ed aromi propri della musica orientale, in questo anticipando la stagione “libera” di John Coltrane.

Ho sempre notato la coesistenza di due anime, nella musica di Ellington: quella più africana, espressionista, asprissima, capace di accelerazioni inusuali, vivida e feroce eppure raffinatissima nello sviluppo melodico ed armonico; e quella più impressionista, europea, in qualche modo assimilabile al cool jazz, per quanto sempre personalissima e di grande impatto creativo. Le due anime del Duke, le due anime della jungla: “Ad lib on Nippon” (per chi scrive capolavoro del disco) ne costituisce l’ideale punto di incontro, l’anello di congiunzione, conteso com'è fra pianismo soffice ed intricato, impennate barbariche dei sassofoni e delle trombe, suoni selvaggi ed un poco rauchi che si alternano a riflessioni più composte. Il fraseggio, qui come in molti altri luoghi del disco (l’overture di “Tourist point of view”, la romantica “Bluebird of Delhi”), ha sempre del miracoloso: il suono ricco e vigoroso del sax alto si alterna ai graffi taglienti e brucianti delle trombe (i suoi collaboratori sono unanimamente reputati fra i più grandi interpreti del proprio strumento), ed i vari assoli si intersecano sempre nei modi più imprevedibili e meno ortodossi.

In ogni caso, irripetibili: l’alchimia raggiunta fra l’Ellington compositore-arrangiatore-direttore e le singole voci della sua orchestra è di fatto qualcosa di unico e non replicabile; troppo forte la personalità di ciascun musicista, troppo ingombrante, viva e sorprendente la musica.

I brani di Ellington, per sua stessa ammissione, tendono a svilupparsi come piccole narrazioni "dialettiche": introduzione quieta, esplosione vigorosa di un’energia irrefrenabile, ritorno alla pace ed alla serenità. E questa tendenza si manifesta compiutamente proprio nella fase matura della carriera del Duke, quando l’artista abbandona le composizioni più brevi (quasi canzoni vere e proprie) della prima fase per addentrarsi in territori sempre più intricati e complessi, dedicandosi alle composizioni di lunga durata e cercando combinazioni fra sonorità sempre più ardite (l’oriente ibrido e sensuale di “Isfahan”, il torrente in piena, fastoso e raffinato, di “Depk”).

Sono trascorsi oltre quarant’anni dalla pubblicazione di questo lavoro, ma la sua freschezza rimane sorprendente ed unica: merita, quindi, un ulteriore godurioso ascolto. Con una raccomandazione: deve rappresentare soltanto il primo passo all’interno della maestosa discografia di Ellington.

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Voto degli utenti: 8,9/10 in media su 10 voti.
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REBBY 7,5/10
plaster 7,5/10
gramsci 9,5/10

C Commenti

Ci sono 8 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Dr.Paul alle 14:39 del 27 agosto 2010 ha scritto:

ooh un po di jazz, bella mossa, bravo!

Totalblamblam (ha votato 9 questo disco) alle 15:53 del 27 agosto 2010 ha scritto:

si bravo julian questo è un classico splendido...del duca nero anche la doppietta

money jungle 62 e afro-bossa 63 è notevole

Totalblamblam (ha votato 9 questo disco) alle 16:02 del 27 agosto 2010 ha scritto:

dimenticavo altre suites belle, ma non come questa, del duca nel disco del 76 "the ellington suites" e altra compilation classica sua "The Blanton-Webster Band" triplo cd da avere, una delle compilation jazz più belle di sempre

loson (ha votato 9 questo disco) alle 18:11 del 27 agosto 2010 ha scritto:

Quoto ogni sillaba degli interventi di stoke. Bravo, Julian!

simone coacci (ha votato 10 questo disco) alle 18:25 del 27 agosto 2010 ha scritto:

Eh beh il Duca è il Duca, ragazzi. Altro che John Wayne. è grazie a capitani coraggiosi (e geniali) come lui che the whole story began... Grande Jules (Francesco)!

fabfabfab (ha votato 10 questo disco) alle 18:38 del 27 agosto 2010 ha scritto:

Azz, non mi ero accorto di questa chicca! Grandissimo Julian davvero! Ma si può anche votare questo disco?

FrancescoB, autore, alle 20:08 del 27 agosto 2010 ha scritto:

Mi fa piacere trovare altri ammiratori del Duca!

Disco favoloso come gli altri citati, scegliere è stata dura: alla fine ho optato per uno dei lavori che conosco meglio. Spero di poter proseguire in questa opera di rivalutazione del jazz, e spero che tanti altri mi sostengano nell'operazione!

Utente non più registrat (ha votato 6,5 questo disco) alle 8:15 del 24 agosto 2020 ha scritto:

Disco non esattamente rivoluzionario e che è invecchiato non proprio benissimo. Resta sorprendente che il Duca sia riuscito a proporre ancora opere di un certo livello dopo tanti decenni di carriera - anche se ad esempio, secondo me, Money Jungle è ben più interessante in tal senso.