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R Recensione

7/10

The Ascent of Everest

From This Vantage

Il post-rock è una pericolosissima matrioska: imitazione di una imitazione di una imitazione. Quando mancano le idee, si sa, si ricopia; quando non si sa ricopiare, si ricopia male. E spesso, troppo spesso, il post-rock è stato sinonimo di pochezza, di tedioso esercizio virtuosistico. Una parodia di sè, senza la coscienza di esserlo. A uscire da questo pantano bastardo ci hanno provato in molti: This Will Destroy, Mono, God is An Astronaut, Mogwai... e tutti hanno fallito. Fatta eccezione per gli ultimi Silver Mt. Zion Memorial Orchestra e Godspeed You! Black Emperor, la scena recente ha visto ben pochi lavori del genere interessanti.

E infatti era con un certo timore che mi avvicinavo a quest'ennesimo "tentativo di". Posso subito tranquillizzarvi però (dopotutto avrete già visto in voto in alto): scongiurato il rischio-minestrina! Questi Ascent of Everest sembrano proprio tipi cazzuti. Sono americani, del Tennessee, e formano un bel gruppetto assieme: otto membri e una varietà impressionante di strumenti, dal violoncello alla chitarra, dalle percussioni alla tuba, passando per il synth, il clarinetto e molto altro. Memori, evidentemente, della lezione GY!BE, affrontano le intemperie e i trabocchetti del banal-post-rock con consapevolezza, capacità e personalità non indifferenti.

L'orchestr(in)a si mostra prima sommessa, accenna accordi al riverbero e battiti in lontananza, come stesse ancora cercando la via giusta da intraprendere ("Trapped Behind Silence"), per poi mostrarsi in tutto il suo splendore: un violino apre il sipario, batteria in crescendo, grovigli d'archi che si rincorrono e una voce maschile (molto Pain of Salvation) che dà gola al melodramma senza mai perdere il filo del pathos ("Return to Us"). Forse la più "classica" dell'album per melodia, ma dannatamente coinvolgente. Ormai padroni sicuri del proscenio, sfornano con facilità un piccolo capolavoro, elegantissima traccia chiaroscurale che vive di contrasti: vocalismi gravi maschili e controaltari acuti femminili, brillamenti del synth e massicce stratificazioni degli archi (violini e violoncelli prima, viola poi); un incontro tra psichedelia, dark-wave rosenthaliano e fitte rifiniture modern-classical ("Dark, Dark My Light"). A proposito di classical, notevoli nel gruppo americano le influenze dei Rachel's e dei Balmorhea, laddove fanno tesoro di suggestioni decadenti e improvvisi risvegli barocchi ("Safely Caged in Bone").

Peccato si perda qualcosina qua e là, complice una certa ripetitività di fondo e un'impropria tendenza al ricalco di quanto già sentito nella prima parte, specialmente in certe sovrastrutture liriche ("Sword and Shield" e "Every Fear"). Nulla di grave, ci mancherebbe, dopotutto sono solo al secondo album, ma tanto basta per capire che gli Ascent of Everest devono ancora mostrare la loro opera d'arte; e noi lì che già ci sfreghiamo le mani...

Fortunatamente superano con una certa disinvoltura l'anonimato descritto prima, offrendo due brani conclusivi davvero niente male: in tutto e per tutto vicini alle sonorità dei colleghi texani (sempre i Balmorhea di "All is Wild, All is Silent"), gli Ascent of Everest riescono a regalarci istantanee di puro e romanticissimo post-rock cameristico, in perfetta simbiosi tra elementi delicatamente acustici e passaggi sali-scendi di climax ("In and Through").

Notevole la title-track, animata fin da subito da un pregevole incontro-scontro di electro-beat sintetizzati in sottofondo e ritmiche quasi cardiache della batteria, impreziosita poi da cori angelici e esplosioni post-rock sul finire ("From This Vantage").

 

Senza starci a riflettere più di tanto, è appurato che "From This Vantage" non è un capolavoro; non per questo va preso sottogamba, tutt'altro: da solo riesce nell'impresa titanica di colmare gran parte delle lacune del genere e di rinvigorirlo con nuova linfa vitale, oltre che ripulirlo da parecchi fastidiosissimi cliché. Una Scalata all'Everest, altrochè.

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