Paolo Spaccamonti
Undici pezzi facili
Io e Paolo Spaccamonti non siamo amici, né mai lo siamo stati.
Solo che un giorno incontro il solito bene informato e nullafacente (due caratteristiche che spesso si richiamano a vicenda), sempre aggiornato su tutte le novità musicali cittadine, i concerti, gli eventi, i locali e tutto ciò che è possibile fare dopo le dieci di sera. Che ultimamente io sono uno che quando tira fino alle undici disdice gli impegni del giorno dopo. Quindi, quando il viveur della Torino notturna mi ha messo in mano il cd di Paolo Spaccamonti, proprio non riusciva a capacitarsi di come io non lo avessi mai sentito nominare. “Ma come?” – mi ha detto – “Ha suonato l’altra sera in quel nuovo locale di via …, ha partecipato allo showcase di …, ne hanno parlato alla radio del …”. A quel punto, mosso da puerili moti d’orgoglio che credevo sopiti da tempo, ho allargato un sorriso compiaciuto e ho risposto: “Ma guarda che sto scherzando, sfigato!” (per uno così sentirsi dare dello sfigato deve essere peggio che mettere in dubbio l’integrità morale della nonna malata) “Io e Paolo siamo amici da una vita!”. E così, con lo sguardo affranto del John Peel dei Murazzi custodito gelosamente tra i miei ricordi felici della giornata, me ne torno saltellando a casa.
Neanche a dirlo, a casa ci trovo mio fratello, uno che tiene lo stereo a volumi da contraerea irachena, sempre e comunque. Appena entro in casa, mi si avvicina e grida: “Ti piace?”. “Chi è?” – gli rispondo io, giocandomi una corda vocale per farmi sentire – “Si chiama Paolo Spaccamonti, è …”. Il resto della frase non riesco a sentirlo, soffocato dalle bordate chitarristiche di “Drones”, pezzo dal titolo programmatico, costruito su ottimi intrecci di chitarra che innalzano muri di suono distorti e noise alternati a fraseggi dall’atmosfera psichedelica. Siamo dalle parti di certo post-rock strumentale, ovvero quelle sonorità capaci di generare tensione grazie all’alternanza di pieni e vuoti, codificate dagli Slint e portate al “successo”, tra gli altri, dai Mogwai. L’impressione è confermata dalla successiva “Vertigo”, nella quale le chitarre di Spaccamonti ricevono forza e dinamismo dal beat creato da Ezra dei Casino Royale e successivamente “doppiato” dalla batteria di Simone Sanna (già membro dei Cletus, misconosciuta gloria cittadina che vedeva in formazione lo stesso Spaccamonti e il chitarrista Stefano Danusso, che per “Undici pezzi facili” diventa fotografo e regala all’amico Paolo la foto di copertina).
A ben vedere, non sono neanche così “facili”, questi undici pezzi. “Fine della fiera”, ad esempio, è un tema portante diviso in tre movimenti dall’andamento sinusoidale e malinconico, ricco di rimandi sia a certo sperimentalismo di marca Jim O’Rourke che ai rarefatti tappeti elettro-acustici di scuola Morr Music. Stesso dicasi per il resto dell’album, che si snoda su ottimi livelli a volte puntando l’occhio oltremanica (il beat quadrato e carico di malessere di “Soli tutti” fa venire in mente i primi Arab Strap) e spesso oltreoceano, tra la Chicago post-rock (“Spy-movie”, come se Hollywood commissionasse ai Tortoise la colonna sonora del nuovo 007), le influenze desertiche dei Friends of Dean Martinez, (“Tex”) e l’altra sponda del post rock, ovvero la Louisville dei Rachel’s (a dir poco incisivo il violoncello di Paola Secci in “Lamento”) o (addirittura!) di Tara Jane O’Neil e delle sue mille incarnazioni (“Minus 8”).
Un gran complimento, per quanto mi riguarda e per quanto possa valere. Perché c’è del nuovo nella Torino post-sbornia Subsonica/Linea 77: cantautori bislacchi (Vittorio Cane, Deian e Lorsoglabro, Stefano Amen), orchestrine acustiche (In Vivo Veritas) e un artista solitario e “shoegaze” (anche se più che alle scarpe l’attenzione è rivolta alla pedaliera della chitarra) come Paolo Spaccamonti.
Il mio amico Paolo Spaccamonti.
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