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7/10

Dakota Days

Dakota Days

Noi italiani, nella musica (ma non solo) siamo sempre molto esterofili, pronti ad invaghirci della nuova band inglese o americana solo perché incensata da qualche testata più o meno famosa, e non ci accorgiamo di quanto di buono abbiamo qui vicino a noi. Fortunatamente all'estero sono meno snob di noi, e i casi di musicisti e band italiane apprezzate all'estero sono sempre più numerosi.

Un esempio recente è rappresentato da questi Dakota Days. Tutto nasce per merito di Ludovico Einaudi (altra eccellenza del nostro made in Italy). Durante il suo tour in Germania, Alberto Fabris, suo assistente musicale (già collaboratore di Pacifico e dei Blonde Redhead), e Ronald Lippok (Tarwater e To Rococo Rot) sul palco con Einaudi alle percussioni, decidono di collaborare per un progetto davvero particolare.

Registrato live nell'arco di tre settimane presso lo studio varesino di Fabris, il risultato di questa unione è davvero sorprendente. A partire dal brano di apertura, una “Slow” (cover di un successo di Kylie Minogue) resa davvero slow e irriconoscibile, con un ritmo ipnotico che avvolge e convince al primo ascolto.

Ma non è l'unica sorpresa: in “Love Boat” molti riconosceranno forse il testo del brano che faceva da sigla al serial tv omonimo, anche se qui la musica viene completamente rifatta, con un intro di chitarra che richiama quasi i Simple Minds, per cambiare subito e trasformarsi nella famosa soundtrack, rallentata e stravolta, resa quasi una bellissima pop song. Idea coraggiosa e geniale, e un tuffo nel passato per molti quarantenni.

Bello il rock '60 di “Planet of the Apes”, che con i suoi tamburelli e suoni elettronici ricorda molto i Flaming Lips più oscuri, come molto intriganti risultano essere i brani più “pop” (termine da non prendere alla lettera): “Sinners Like Us”, con il suo ritornello ripetuto in chiusura sullo sfumare della musica, per poi riprendere con un ottimo ingresso degli archi (o di un synth?), il traditional “Klare de Kitchen”, carico di suoni strani, percussioni, campanellini, o l'omonima “Dakota Days”, che si apre con un arpeggio elegante su cui entra prima una chitarra distorta, e poi la voce.

Si entra nel nuovo secolo con “The Hunter”, brano strumentale basato su ritmiche elettroniche e dark, il cui tappeto ritmico e sonoro si colora di chitarre pop per trasformarsi nella seguente “Sometimes”. Notevole anche “The Kiss”, il brano più deviante del disco, chitarre distorte su una base di batteria incalzante, e la voce che ripete ossessivamente la stessa frase.

Il cd si chiude con “Silver Mine”, brano lento, arpeggio di chitarra, note di piano minimali così come il breve testo, e disco che si spegne lentamente. Un disco molto omogeneo e uniforme, pur nella diversità e molteplicità delle influenze di provenienza dei due autori (dal punk alla new wave, dal prog alla psichedelia, dall'elettronica al post rock), che a quanto pare si sono anche molto divertiti nel comporne i brani. Ottimo inizio per una collaborazione che si spera possa dare presto nuovi frutti

 

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