Manic Street Preachers
Postcards From A Young Man
Se cè una cosa che Journal For Plague Lovers (2009) ha dimostrato è stata limportanza cruciale di Richey Edwards per i Manic Street Preachers. Solo il fatto di riaprirne i diari, recuperarne gli appunti e riviverne lo spirito, ha rigenerato la band, tornata con quel disco ai suoi fasti. E i paragoni con la Bibbia (The Holy Bible), pertinenti ma non certo esaustivi, si sono moltiplicati.
Bradfield, Wire e Moore avevano promesso, dopo quellescursione nei territori ruvidi e dolorosi del passato, che sarebbero tornati sulle scene con il loro disco più pop, quasi a mo di liberazione. Postcards From A Young Man, nato nel giro di un anno soltanto, è il decimo disco dei Manic Street Preachers ed è anche, con pochi dubbi, il peggiore. Già in Lifeblood (2004) i tre avevano maneggiato registri sfacciatamente pop, ma con una classe e uneleganza quasi glabra che ne fanno tuttora un lavoro interessante. In Send Away The Tigers (2007), poi, la declinazione del pop era annacquata in stilemi rock più classici, ma con alcune puntate taglienti capaci di lasciare il segno.
Il pop dei nuovi Manics è, invece, stucchevole magniloquenza: archi incessanti che spuntano ovunque (un incubo), chitarre squillanti, ritornelli pomposi e telefonati, un Bradfield costantemente sovreccitato, assoli muffosi, melodie avvilenti. Fa unospitata Ian McCulloch (Echo And The Bunnymen), e spiace per lui che cada in uno dei pezzi più smancerosi della band (Some Kind Of Nothingness), anche se la concorrenza, qui dentro, è agguerrita (The Descent, Golden Platitudes); Hazleton Avenue, poi, con la sua nostalgia a buon mercato («so take me back to bla bla bla») e i suoi stacchi sinfonici, fa molto 'adult pop rock' per coniugi gallesi passatisti.
Non funzionano, peraltro, nemmeno gli episodi più muscolosi, ingabbiati in schitarrate di arena rock prefabbricato (Auto-Intoxication, con John Cale al piano) e senza redenzione (A Billion Balconies Facing The Sun, ossia una "You Stole The Sun From My Heart" riaggiornata). Si tiene giusto qualche motivo canticchiabile ((Its Not War) Just The End Of Love, la title-track, lauto-rivelatrice All We Make Is Entertainment, Don't Be Evil), e si maledice la testardaggine di Wire a voler cantare ogni volta un pezzo, con una voce sempre più incerta e traballante (The Future Has Been Here 4 Ever).
Dispiace, soprattutto, che non resti nulla dellintensità di Journal, della sua rabbia raggrumata, quasi che la volontà di suonare più pop avesse tenuto la band alla superficie di tutto. Peccato che qualcuno non abbia fermato i Manics in tempo. Discaccio.
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