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R Recensione

5/10

Manic Street Preachers

Postcards From A Young Man

Se c’è una cosa che “Journal For Plague Lovers” (2009) ha dimostrato è stata l’importanza cruciale di Richey Edwards per i Manic Street Preachers. Solo il fatto di riaprirne i diari, recuperarne gli appunti e riviverne lo spirito, ha rigenerato la band, tornata con quel disco ai suoi fasti. E i paragoni con la Bibbia (“The Holy Bible”), pertinenti ma non certo esaustivi, si sono moltiplicati.

Bradfield, Wire e Moore avevano promesso, dopo quell’escursione nei territori ruvidi e dolorosi del passato, che sarebbero tornati sulle scene con il loro disco più pop, quasi a mo’ di liberazione. “Postcards From A Young Man”, nato nel giro di un anno soltanto, è il decimo disco dei Manic Street Preachers ed è anche, con pochi dubbi, il peggiore. Già in “Lifeblood” (2004) i tre avevano maneggiato registri sfacciatamente pop, ma con una classe e un’eleganza quasi glabra che ne fanno tuttora un lavoro interessante. In “Send Away The Tigers” (2007), poi, la declinazione del pop era annacquata in stilemi rock più classici, ma con alcune puntate taglienti capaci di lasciare il segno.

Il pop dei nuovi Manics è, invece, stucchevole magniloquenza: archi incessanti che spuntano ovunque (un incubo), chitarre squillanti, ritornelli pomposi e telefonati, un Bradfield costantemente sovreccitato, assoli muffosi, melodie avvilenti. Fa un’ospitata Ian McCulloch (Echo And The Bunnymen), e spiace per lui che cada in uno dei pezzi più smancerosi della band (“Some Kind Of Nothingness”), anche se la concorrenza, qui dentro, è agguerrita (“The Descent”, “Golden Platitudes”); “Hazleton Avenue”, poi, con la sua nostalgia a buon mercato («so take me back to bla bla bla») e i suoi stacchi sinfonici, fa molto 'adult pop rock' per coniugi gallesi passatisti.

Non funzionano, peraltro, nemmeno gli episodi più muscolosi, ingabbiati in schitarrate di arena rock prefabbricato (“Auto-Intoxication”, con John Cale al piano) e senza redenzione (“A Billion Balconies Facing The Sun”, ossia una "You Stole The Sun From My Heart" riaggiornata). Si tiene giusto qualche motivo canticchiabile (“(It’s Not War) Just The End Of Love”, la title-track, l’auto-rivelatrice “All We Make Is Entertainment”, “Don't Be Evil”), e si maledice la testardaggine di Wire a voler cantare ogni volta un pezzo, con una voce sempre più incerta e traballante (“The Future Has Been Here 4 Ever”).

Dispiace, soprattutto, che non resti nulla dell’intensità di “Journal”, della sua rabbia raggrumata, quasi che la volontà di suonare più pop avesse tenuto la band alla superficie di tutto. Peccato che qualcuno non abbia fermato i Manics in tempo. Discaccio.

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Voto degli utenti: 3,7/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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bill_carson (ha votato 3 questo disco) alle 13:56 del 15 settembre 2010 ha scritto:

penoso

tarantula (ha votato 2 questo disco) alle 15:45 del 17 settembre 2010 ha scritto:

Questo disco conferma la mia idea che i Manic Street Preachers siano sempre stati un gruppo mediocre che, per uno strano miracolo d'ispirazione oppure grazie all'intervento di qualcuno che è rimasto nell'ombra, hanno fatto un buon album com'era "Journal for plague lovers".

Ora hanno recuperato la loro dimensione con questo scempio.

Charisteas (ha votato 6 questo disco) alle 17:31 del 19 settembre 2010 ha scritto:

Certo, lo avevano detto prima: faremo un disco molto pop, è la nostra ultima chance per sfondare nel mercato europeo. Amati solo in patria e venerati per pochi episodi dai critici esteri, con questo disco non fanno certo passi avanti, anzi. Non è bruttissimo, ma nulla aggiunge alla loro carriera. Si salvano It's not war, la title track, Auto-Intoxication (uno scarto da JFPL?)e A billion balconies...

Non trattateli troppo male in generale, però. In passato hanno fatto ottime cose (i primi quattro dischi più JFPL sono di altissimo livello!)