The Verve
Urban Hymns
Dopo uno splendido e “allucinato” esordio a metà strada tra la psichedelia e lo shoegaze come “A storm in heaven” e il successivo decisamente più “accessibile” “A Northern Soul”, si poteva facilmente prevedere un ulteriore virata verso territori decisamente più “pop” e orecchiabili. Un’evoluzione parzialmente anticipata dalla presenza in quest’ultimo disco della sinfonica “History” (prima dichiarazione d’amore per gli archi che diventeranno poi una costante anche nei dischi solisti di mad Richard) e della ballata “On Your Own“.
Urban Hymns è infatti il naturale seguito dei suoi predecessori, il completamento di un percorso musicale se vogliamo anche parzialmente influenzato dalla moda del momento. Il brit pop.
Un atteso ritorno dopo l’improvviso scioglimento del gruppo a causa dei pesanti conflitti interni tra i membri.
Con questo nuovo disco la formula iniziale viene non solo ulteriormente diluita ma in certi episodi anche dimenticata.
La componente psichedelica che aveva caratterizzato la musica del gruppo fin dai primi ottimi ep (come dimenticarsi del bellissimo Verve Ep…) sembra ormai davvero lontana, come sembrano lontani i tempi in cui la voce di un Ashcroft sotto effetto di lsd veniva “soffocata” e “sepolta” da strati di feedback e distorsioni...
Ora invece la stessa voce viene fatta “riemergere”…
Viene messa al servizio di melodie davvero memorabili, cristalline e capaci di far breccia su un pubblico più vasto e disattento, riuscendo a raggiungere finalmente il meritato successo planetario.
A far conosce i Verve in tutto il mondo ci pensa infatti “Bitter Sweet Symphony”. Un vero e proprio inno generazionale, una delle canzoni simbolo degli anni ‘90.
Un crescendo continuo di strumenti, suoni e pathos, caratterizzata dal celebre campionamento del riff presente in “The Last Time” dei Rolling Stones.
Il celebre pezzo per archi viene infatti “rubato” dallo stesso riff elaborato in chiave sinfonica e presente in un disco di versioni orchestrali di alcuni brani dei Rolling Stones, senza citare però in alcun modo la sua paternità.
Jagger e Richards non si fanno scappare la ghiotta opportunità e dopo aver vinto la causa, lasciano al povero ashcroft l’accredito del solo testo della canzone, assicurandosi cosi’ i preziosi diritti sulle vendite di quel fortunatissimo singolo.
I benefici indiretti ricavati da quell’intuizione geniale comunque non tardano a materializzarsi, sospinti ulteriormente dalle successive hit.
“Lucky Man”, “Sonnet” e la malinconica “The Drugs Don’t Work” riprendono e ampliano il discorso “ballad” già aperto nel precedente disco, enfatizzando e accentuando ancor più quella perfezione sonora volutamente ricercata dal quartetto di Wigan.
Nello stesso contesto, appaiono di tutto rispetto anche gli episodi “minori” (solamente in termini di successo).
La dolce “One Day” ma soprattutto le splendide “Space And Time”, “Velvet Morning” e “Weeping Willow”.
Tuttavia una vena psichedelica il gruppo è riuscito comunque a conservarla.
La si può percepire sia nei pezzi più energici come “The Rolling People” dove il muro del suono creato dalle chitarre lisergiche di McCabe e Tong ci riportano indietro di qualche anno e nella conclusiva e devastante “Come On”… ma anche nei pezzi più “dilatati” come “Catching The Butterfly” e “Neon Wilderness”.
Urban Hymns è un disco imprescindibile per tutti gli amanti del genere e non solo. Un disco che sicuramente verrà ricordato nel tempo. Non il disco dell’anno però…
Già, perché l’anno in questione è il 1997, e tra deliziosi “inni urbani” appunto, sperimentazioni varie ed eventuali dei blur in fuga dal brit che li teneva prigionieri e il “chiassoso” ritorno degli Oasis con “Be Here Now”, vede la luce quel capolavoro di “Ok Computer”.
Nonostante il clamoroso successo e i riconoscimenti da parte della critica, a causa dei soliti e distruttivi conflitti interni, il gruppo si scioglie per la seconda volta. Quella definitiva(o almeno per ora vista la moda delle reunion impossibili che impazza ogni anno di più), lasciandoci cosi’ un lavoro davvero bello e maturo, ma anche un vuoto difficilmente colmabile.
Aveva ragione Mad Richard, è proprio una sinfonia dolce amara questa vita.
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