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R Recensione

8,5/10

Third World Love

Third World Love Songs

Ci ero cascato, eccome se ci ero cascato.

Forse perché cascarci era e rimane facile: illudersi che la musica che ami abbia già detto tutto ciò che aveva da dire, credere che abbia esaurito la propria linfa vitale sino all'ultima goccia, sotto sotto è rassicurante.

Perché ti evita la fatica di cercare qualcosa di nuovo, qualcosa per cui valga la pena sgranare gli occhi e chiamare l'amico di turno in preda all'estasi.

Invece il jazz, come le ragazze, è più furbo del sottoscritto, e da tempo ha deciso di elettrizzarmi e di risollevare le sorti della musica contemporanea, ricca di cose che non riesci ad amare anche quando ti piacciono.

Non fraintendetemi: non sono un passatista e credo anzi che la "qualità media" della musica di "oggi" (fingiamo che oggi sia il 2002, in fondo è quasi così) sia eccezionale, forse anche superiore a quella di tante presunte epoche d'oro (questo, partendo dal presupposto che un simile confronto abbia senso, il che non è affatto scontato). Ma sono sempre pochi i dischi che ti cambiano la vita, quelli che ti azzardi a mettere accanto ai tuoi compagni di sempre senza sentirti obbligato a turarti il naso.

Non so, forse è solo questione di affinità, ma la contemporaneità (e parlo di tutto ciò che è accaduto dopo il millenium bug), nel suo caleidoscopico, ragionato, impeccabile eclettismo, mi lascia quasi sempre soddisfatto a metà, quasi fosse una sigaretta: funziona, ok, ma ne vuoi sempre un'altra.

I Third World Love, che bazzicano nell'ambiente proprio da un decennio giusto, appartengono invece alla categoria degli immortali, senza "se" e senza "ma". In altri termini, non mi vergogno a collocarli vicino ai cervelloni più creativi del genere, perché la musica che ti scaraventano addosso è altrettanto viva, saettante, poderosa. Possiede quella qualità unica, difficile da rendere per iscritto, che si chiama capacità espressiva. I loro brani sono vibrazioni di calore, sono gioielli variopinti come un uccello tropicale, e hanno il pregio incredibile di suonare "bene" per tutta la durata, il che non sempre è vero per i brani jazz.

Possiedono quel non so che, una tensione narrativa, una struttura forse gracile ma sempre lucida e coerente.

Troppo spesso chi non è avvezzo al genere tende a declassificarlo a mero esercizio di stile che può entusiasmare solo qualche strumentista di vaglia, ma che non sa stringerti cuore e cervello come i migliori pezzi rock: intendiamoci, sono cazzate. Io conosco a malapena la posizione delle note e sul pentagramma e vanto cinque lezioni di pianoforte in croce, eppure amo questa musica con ogni centimetro del mio corpo.

Ma a volte sono caduto nel tranello, inducendomi a credere che si tratta di una musica da decifrare, più che da amare: e allora è importante che cerchi di convicere tutti, me stesso compreso, che qui bisogna archiviare certi stereotipi.

Questi terzomondisti, infatti, sono certamente autentici fenomeni quando stringono in mano i propri strumenti, ma la cosa veramente assurda è l'originalità della loro alchimia, che non perde un colpo neanche a pagarla, che – come nella migliore tradizione del genere – ti ingabbia l'anima e i timpani e non li molla sino allo sfinimento. Musica di estrema complessità armonica e melodica eppure senza fronzoli, musica che non perde tempo a contemplare i bei lineamenti riflessi nello specchio, perchè è troppo impegnata ad insegnarci il concetto di musica dirompente; musica nata quasi per caso, peraltro, a Barcellona nel 2002, come testimonia questo sfavillante lavoro di debutto.

Il segreto della riuscita sta soprattutto nel cervello di Avishai Cohen, per quanto mi riguarda uno fra i pochi musicisti contemporanei che possono fregiarsi del titolo di genio. E' figlio del post-bop e della tradizione hard, ma ha imparato parecchio anche dalla morbidezza di Miles Davis, dal sorriso sornione di Chet Baker, dal non sense di alcuni fra i maggiori trombettisti free-jazz. Un musicista che ha deciso di aprire strade nuove all'improvvisazione, sforzandosi di costruire un percorso peculiare e fuori dagli schemi, un talento melodico fuori dal comune che concepisce brani tanto stranianti quanto trascinanti ed appiccicosi.

Le sue interviste (sempre interessanti) testimoniano anni di duro lavoro alle spalle, ma anche una certa inquietudine che lo induce a cercare soluzioni sempre nuove, con slanci e aperture anche verso il mondo del rock.

Ma torniamo al 2002 e al disco di debutto: perchè la storia è iniziata con i fuochi d'artificio.

"Bina" è un saggio di equilibrio e compostezza che lascia il segno, preludio elegante ai capolavori che verranno: quattro strumenti che sembrano prendersi per mano ed iniziare un girotondo giocoso, una fusione calibratissima di sonorità e di oscillazioni ritmiche. L'introduzione al piano dà le vertigini, e anche il solo delicatissimo che apre la sezione centrale del brano non è da meno: un'improvvisazione al crocevia fra rigore classico ed estro jazzistico; nel finale, poi, Daniel Freedman si mette a picchiare tutto ciò che gli capita a tiro, neanche fosse un disco degli Slayer.

"Third World Love Story" si libra come uno stormo, mentre il pianista Yonathan Avishai (un altro genio, secondo chi ne capisce qualcosa, e io mi fido) si solleva in aria e poi oscilla come fosse il capostipite di un nuovo modo di concepire il piano jazz, arioso eppure concreto, vibrante eppure pensoso, carico di adrenalina e sempre incisivo nei brevi solo della mano destra. Il batterista, che dà il meglio in in "Bina" e in "Assal", è una spugna che ha assorbito ritmiche e timbriche da ogni parte del mondo, un po' Sudamerica ed un po' Africa nera. Il suo suono è leggermente slabbrato e sporco (anche se i suoi contorsionismi sono degni dei maestri dello strumento), meno arioso rispetto alla media, forse più rock. E questo regala a quasi tutti i brani una vitalità decisa: è lui il segreto della vibrazione funk che percorre sottile larghi tratti dell'opera.

Mi fermo qui, perché non voglio rovinare il vostro primo incontro con questo piccolo capolavoro: segnatevi però il nome di questi ebrei, e tuffatevi di ginocchia nel loro mondo.

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lev alle 21:48 del 30 ottobre 2012 ha scritto:

proposta davvero interessante francesco. cerco di recuperarlo

redbar alle 14:52 del 7 gennaio 2013 ha scritto:

Bella scoperta. L'ho fatta anch'io di recente con l'ultimo Cd Songs and portraits 2011