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7/10

Charles Lloyd/ Jason Moran

Hagar's Song

Gli uomini del free-jazz hanno buttato sul mondo della musica una bomba all'idrogeno e si sono pure divertiti a camminare sulle sue macerie. Ok.

A metà anni '70 però gli attributi inizavano a grattuggiarsi.

O forse no, almeno io non la vedo proprio così, ma schiere di musicisti jazz ne erano convinte. Dissonanze, libere improvvisazioni capaci di scaldare il cuore e di frantumare i timpani, i discepli di John Coltrane, e quindi Pharoah Sanders, o Archie Shepp che canalizza il suo linguaggio verso un radicalismo politico e antirazzista sempre più cieco. Tutto buono e giusto.

Ogni tanto però va bene anche rilassarsi, riscoprire il gusto per la melodia, il piacere di una successione impeccabile di accordi, volteggi puliti e sensati del pianoforte. Niente più uragani di accordi fratturati, ma una fresca brezza di note ben disegnate.

Forse vi state chiedendo che senso abbia rievocare gli anni '70, se "Hagar's Song" è uscito nel 2013. Beh, se la domanda vi frulla in testa, avete torto marcio.

Charles Lloyd, uno fra i due protagonisti del lavoro, bivacca nel mondo del jazz sin da allora (anzi, precisione vorrebbe che si richiamasse anche i primi lavori, pubblicati negli anni '60 e quindi in piena bufera free-form) e già si dedicava anima e corpo a questa nuova/vecchia forma di jazz.

Quella che al tempo si definì come ECM Style, in onore dell'etichetta che si premurò di divulgarla; uno stile abbracciato anche dal giovane e talentuoso pianista Jason Moran, perfettamente a suo agio fra i suoi intricati passaggi e il suo equilibrismo un po' vitreo.

L'estetica violenta e abrasiva del free-jazz finisce in panchina e si fa largo un sound più morbido, che deve qualcosa al rigore compositivo del cool così come alla fusion. Ecco, il third stream: musica jazz che mutua concezioni melodiche e armoniche della classica europea, che riscopre il fascino dell'idea nitida e compiuta. Perde qualcosa in termini di imprevedibilità, ma diventa forse più gestibile e digeribile anche ai non inizati. Il tempo dei raga atonali è finito, meglio rituffarsi dentro fluenti melodie dal sapore agrodolce.

"Hagar's Song" è ECM Style aggiornato al 2013: Lloyd (sassofono tenore e alto, occasionalmente flauti alto e basso) e Moran (pianoforte e tamburi) calzano il classicismo come un guanto.

E allora è bello riscoprire gli umori in chiaroscuro di "Mood Indigo", le atmosfere cristalline di "All About Ronnie", la malinconia tinta di nero di "You've Changed" (il brano porta la firma di Bill Carey/Carl Fischer, ma ascoltate la versione di Billie Holiday, se per caso non la conoscete: gronda lacrime e sangue), le geometrie parkeriane, in odore di astrazione, di "Pictogram".

O ancora, i cinque movimenti di cui si compone il cuore del disco ("Hagar Suite"), che si confrontano con un tema caro a tutti gli afro-americani, siano free-eversivi o più semplicemente bravi jazzisti: quello della schiavitù, delle origini, della liberazione. Charles racconta della sua Grand-Grand-Mother e i momenti di cedimento sono pochi, nonostante qua e là affiorino lungaggini forse evitabili.

"Bolivar Blues" è fedele al titolo nei movimenti armonici, "Rosetta" (Hearl Hines) mostra il giovane pianista al suo meglio, mentre monta e smonta gli incastri orchestrali del grande compositore.

Ci sono persino due piacevoli riletture di Bob Dylan ("I Shall Be Released") e dei Beach Boys ("God Only Knows"), per ricordarci che anche la musica popolare è entrata a far parte del patrimonio degli standard.

Il tempo scorre che è una meraviglia: questo disco non cambierà nulla, ma è come un cioccolatino dopo cena. Ci sta sempre bene, di solito ne vuoi subito un altro.

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Utente non più registrato alle 9:43 del 5 settembre 2015 ha scritto:

Musicista che conosco poco rispetto ad altri, me ne interessai in parallelo alla produzione di Keith Jarrett e di Miles Davis elettrico.

M'interessava capire la provenienza di musicisti come Jarrett e Jack DeJohnette che tanto hanno lavorato insieme

anche alla corte di Davis, e come il quartetto di Dream Weaver, Forest Flower e Soundtrack (i lavori che conosco di più) ottenne un notevole consenso nel biennio 66/68 diventando il primo gruppo jazz ad esibirsi al Fillmore.