A A Place To Bury Strangers Live @ Unwound

A Place To Bury Strangers Live @ Unwound

A Place To Bury Strangers @ Unwound, Padova, 06/05/2010

Due cose avevo letto sugli A Place To Bury Strangers live: che conveniva portarsi dietro dei tappi per le orecchie e che i posti immediatamente sotto al palco, a volte, rimanevano vuoti per eccesso di decibel. Ci marciano, eh, i tre newyorkesi: già noti come «the loudest band in New York», vendono tra il merchandising t-shirt con la quantità di MHz che riescono a raggiungere e si dedicano quasi religiosamente, durante l’esibizione, a esercizi di rumorismo spinto. Sta di fatto che ieri sera, all’Unwound, in mezzo a stradine quasi eleganti dietro la stazione di Padova, non mi sono portato i tappi per le orecchie e mi sono piazzato davanti alle casse alla sinistra del palco. Perché almeno quando stacco dalla routine del lavoro, mi piace essere terribilmente irresponsabile.

Oliver Ackermann (chitarra ed effetti costruiti dalla sua Death By Audio), Dion Lunadon (basso e maglietta dei Brian Jonestown Massacre) e Jay Space (batteria e strusciamento non richiesto su una ragazza che era andata a stringergli la mano a fine concerto) attaccano sulle undici e un quarto, senza gruppi spalla. L’Unwound sembra qualcosa a metà tra un magazzino dismesso e un circolo per pensionati anni sessanta (grazie soprattutto allo spesso tendaggio che chiude la parete opposta al palco, tra seggiole da Bar Sport e tavolini da scopone scientifico), ma almeno non è il solito capannone con tubi a vista. Anzi: bel posto. Presenze tra i 150 e i 200, tra cui molti universitari, un paio di darkettoni residuali e un headbanger più che residuale.

L’ora e spiccioli del concerto potrebbe essere divisa tra una prima parte decisamente più scorrevole e rispettosa della forma-canzone e una seconda parte molto noise-oriented e caciarona. Anche all’inizio, comunque, quando i tre mollano alcune delle hit migliori in sequenza, si rimane sorpresi dalla quantità immane di casino che riescono a produrre: la batteria è effettata a livelli da sfiorare l’esito di una drum-machine (con suono molto ’80, post-punk e industriale assieme), il basso annega in distorsioni e pece spaziali, mentre la chitarra è un mostro proteiforme, violentata dagli effetti di Ackermann in qualcosa di francamente assurdo. È l’esperienza più impagabile del concerto: perdersi tra i meandri ondivaghi e siderurgici degli spessori di suoni creati dagli effetti, viaggiare in una sorta di 3-D musicale senza smarrire la traccia melodica, che viene anzi quasi scolpita a furia di sassate metalliche, fuzz apocalittici, delay disumani, stilettate industrial prestate alla new wave, linee vocali catatoniche. Senza pause.

Se, infatti, non viene pronunciata da Ackermann nemmeno mezza parola tra un pezzo e l’altro, a riempire i vuoti ci pensa il bassista, prendendo a pugni il suo basso o martellandoselo in testa (già). Il suono che ne esce è, più o meno, quello di una camionata di pali di acciaio che cadono da una gru. Lo show migliore, però, lo offre Ackermann stesso alla fine di una scartavetrante “I Lived My Life To Stand In The Shadow Of Your Heart”, quando, dopo aver guardato per la prima volta verso la platea con uno sguardo a dir poco inquietante, stupra la propria (malconcia) chitarra trascinandola sul palco, strozzandola coi cavi e, infine, strappandone le corde mentre ci si siede sopra. Vera e propria scena di violenza sessuale prestata al punk, tanto teatrale quanto lucida, visto che sarà lui stesso, trenta secondi dopo, a prendersi una nuova sei-corde, accordarla e jackarla, con minuziosità da tecnico del suono.

Che vuol dire, a essere sinceri, come sia difficile capire quanto gli A Place To Bury Strangers ci facciano o ci siano, quanto partecipino del sacerdote ombroso del culto post-punk e quanto del perito elettronico (posto che una persona non possa essere sia l’uno che l’altro). Il concerto, in ogni caso, si rivela potentissimo e di impatto fenomenale, nonostante le solite recriminazioni per qualche pezzo non eseguito (non la splendida “The Falling Sun” dal primo disco, né le eccellenti “Smile When You Smile” e “Everything Always Goes Wrong” dal secondo).

E se andate a sentirli, due consigli: non portatevi tappi per le orecchie e mettetevi sotto al palco, possibilmente davanti a una delle casse.

It Is Nothing

I Know I’ll See You

Keep Slipping Away

Don’t Think Lover

In Your Heart

Lost Feeling

Exploding Head

To Fix The Gash In Your Head

Deadbeat

I Lived My Life To Stand...

Ocean

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