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R Recensione

7/10

Disappears

Pre Language

Seppur centellinato sotto il profilo quantitativo, anche nell’ultimo periodo alla Kranky la qualità del materiale proposto è, alla fine, risultata decisamente buona; ché, sotto l’egida della label statunitense, abbiamo goduto dello sbocciare suggestivo dell’ambient drone di Tim Hecker (“Ravedeath, 1972”, uscito a luglio 2011); o, questo mese, delle straordinarie inventive guitar pop di Lockett Pundt (1/4 Deerhunter) e dei suoi Lotus Plaza. Nel mezzo, alcune (poche numericamente, come detto) proposte di spicco, nel quale si inserisce un gruppo che di affinità elettiva coi nomi sopracitati ne possiede poca,  benché abbia avuto il merito di ampliare la portata dei suoni rock (o minimal rock, come da descrizione) dell’etichetta, contribuendo alla causa con un’idea di musica shoegaze-goth segnata da un’attitudine al crocevia tra dosaggi psych/garage e pervasività oscura e plumbea.

Stiamo parlando dei Disappears, band di stanza a Chicago con all’attivo già due dischi – in tre anni: “Lux” del 2010 e ”Guider” dei marzo 2011; in poche parole, il loro ultimo lavoro,“Pre Language”, è revivalismo post punk incastonato in un’estetica cospicua di riverberi. Cifra stilistica in scia Sonic Youth (non a caso, il nuovo batterista è proprio Steve Shelley) quindi, smossa anche da dinamiche kraut-rock (Can, Neu!; i più recenti Phantom Band) e insozzata da asperità (relativamente), ripetizioni e sviluppi di stampo wave/noise-rock (Young Prism, e molto del catalogo Sacred Bones ad esempio). Il disco, prodotto da un 'nume tutelare' come John Congleton, presenta composizioni dalle fondamenta stabili, con ossatura strutturale esposta, in cui all’interno Brian Case e compagni si dilettano a generare flussi  oscuri (come nei giochi di vuoto di “Minor Patterns”) e multistrato (nel kraut martellante di “Replicate”), imbrattando il suono con bordate di feedback, eco ipnotiche e ben lisergiche (“All Gone White”, dalla ritmica in scia post/math rock à la Tortoise; il reflusso vorticoso di “Love Drug”), mantenendo comunque ben salde le linee melodiche dei pezzi (come gli A Place to Bury Strangers insegnano). Perle le due tracce più compatte, e tirate: “Pre Language” e il suo riff scivoloso e addirittura accattivante ; i sovraccarichi fuzz corrosivi, in “Fear of Darkness”. L’instabilità di “Joa”, infine, è da rielaborazione latente e personalissima da “Confusion is Sex” in poi, mischiata a roba revival delle più recenti – Religious Knives è esempio -, per imprevedibilità (vagamente) psicotica del suo svolgersi.  

Il sound non pare molto distante da quanto proposto nel recente passato, sebbene i nostri abbiano limato, in fase di produzione, molte asperità riscontrabili soprattutto nell’esordio: ne esce un lavoro più compiuto, molto solido in termini di compattezza. In grado, cosa più importante, di spiccare dalla media delle proposte in odore di rivisitazione post punk.

In questo momento, e su questi suoni, tra le cose migliori che possiate trovare: insomma, caldamente consigliato.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 4 voti.
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Teo 7/10

C Commenti

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Ivor the engine driver (ha votato 8 questo disco) alle 14:53 del 23 aprile 2012 ha scritto:

bel disco, per ora il migliore dei tre anche se a me sembra abbastanza diverso dai precedenti, più ipnotico psichedelici. Secondo me la titletrack è proprio il pezzo meno interessante, mi ricordano i primi Interpol, e sinceramente non ne avevo nostalgia. Cmq bel disco, Joa su tutte