A Born Running

Born Running

Il fatto che la sede dell'Università si chiamasse “Palazzo Nuovo” faceva un po' sorridere. Quel palazzo era nuovo il giorno in cui l'hanno costruito, un po' come tutte le cose, ma adesso era un vecchio ammasso di cemento, ferro e tanto (tanto) amianto. Così, il giorno in cui due furgoni carichi di operai con tanto di picconi, pale, sacchi di cemento e betoniera al seguito si fermarono a venti metri dal portone dell'Ateneo, gli studenti furono colti dal panico. Oddio, che fanno? Ristrutturano? Lo buttano giù? Ma sono matti? E noi? Dove andiamo a giustificare la nostra disoccupazione? Dove andiamo a farci le canne? Alla stazione dei treni?

Personalmente la cosa non mi preoccupava, l'idea che senza amianto avrei potuto vivere qualche anno anche dopo l'Università non mi dispiaceva. Anzi un po' ci speravo, così magari sarebbe saltata la sessione d'esami e me ne sarei stato tranquillo a giocare a calcio sotto casa per qualche mese. Così raggiunsi l'operaio più vicino, e sfoderando una faccia di culo degna di Alberto Sordi chiesi: “Scusi, lavoratore, cosa costruite di bello?”. Lui – un filippino (o vietnamita, vai a capire) con la faccia color nocciola e una manciata di denti buttati in bocca senza logica alcuna – rispose: “Clatino”. Io inspiegabilmente capii “Gladiolo” e chiesi conferma: “Ah, dei fiori?”. Lui mi squadrò come si guarderebbe un cavallo che abbaia e alzò il tonò di voce: “No fiole, clatino, clatino pel siede!”. Io continuavo a non capire, allora lui accompagnò la spiegazione con un ampio gesto della mano: “Clatino, clatino pel metti tuo culo!”. “Ah! Ho capito! Gradino! Un gradino! Per sedere!”. Lui confermò, entusiasta: “Blavo! Sedele! Culo!”. Dopo aver vinto la mia personale battaglia contro l'incoprensione interculturale, tornai indietro e portai la notizia agli studenti fuori dall'Università (anche perchè dentro non c'era mai nessuno) i quali – sollevati – si dispersero. A nessuno importava realmente cosa stesse succedendo, l'importante era che quel mostro di cemento li proteggesse dalla vita reale, anche a costo di ammazzarli col cancro. Io invece non capivo: ma a che cazzo serve un gradino piazzato a venti metri di distanza dalla porta dell'Univerisità? Un gradino serve per “scendere” e per “salire”, ma un gradino singolo, che non accede a nulla, cos'è? Una metafora della vita? Se sali su un gradino e come unico risultato hai lo “stare sul gradino”, cosa ci sali a fare?. Poi ripensai alle parole del vietcong (oh, aveva gli occhi a mandorla, era piccoletto, piantava le mattonelle di porfido con una precisione e una rapidità impressionanti, di più non so): “per sedere”. Ecco, non era una metafora della vita, era una metafora della carriera universitaria: una scala che non porta a niente, uno sbocco verso il nulla, una carriera fine a se stessa, che si risolve nel suo stesso essere. Arrivi lì, e ti siedi. Tanto salire non serve, perchè oltre il gradino non c'è nulla. Il Rettore ci prendeva tutti per il culo. Genio totale.

Ad ogni modo, nell'arco di una settimana, il piccolo Ho Chi Min e i suoi colleghi terminarono il lavoro: i gradini in realtà erano tre, inutili ma belli grossi, con tanto di corrimano laterale dipinto di rosso e porfido a spacco su battuta di cemento. Troneggiavano in mezzo all'area pedonale come una scultura d'arte moderna. La nuova isola-gradinata si popolò immediatamente: punk, spacciatori, studenti senza libri e studentesse con il cane al guinzaglio. Davanti al portone dell' Università non sostava più nessuno, e forse l'obiettivo del Rettore era solo questo. Lo avevo sopravvalutato. Sul primo gradino si stabilì anche Manolo, un senzatetto che fino ad allora aveva albergato a pochi metri di distanza, su dei gradini che – almeno in quel caso – servivano per accedere ad una biblioteca. Manolo poteva avere trenta come sessant'anni, aveva un dedalo di rughe lungo il volto che lo rendevano un tutt'uno con un unico gigantesco dreadlock che partiva dalla fronte e scendeva deforme lungo la schiena. Era un po' il simbolo dell'Università e dei suoi iscritti, ne rappresentava lo stile (aveva una cultura profonda in Storia e Filosofia) e probabilmente ne preconizzava il futuro. I compagni inseparabili di Manolo erano due: il Baffo Moretti e Lella, la sua cagnetta. Il Baffo Moretti lo seguiva sempre sotto forma di lattina o bottiglia, Lella faceva lo stesso, nei suoi tre chili scarsi di pelo, orecchie e – soprattutto – pulci. Gli studenti adoravano Manolo, si fermavano ad ascoltare le sue dissertazioni su Hegel o Schopenhauer (fingendo di capire), più spesso si sedevano con lui a condividere birra e marjuana. Manolo era fatto così, un figlio dei fiori fermo al 1968, dalla provenienza sconosciuta e dal passato misterioso. Si era diffusa la voce che portasse fortuna, così un giorno mi presentai da lui con un paio di bottiglie (non accettava elemosine, ma non resisteva al Baffo Moretti) e gli chiesi: “Sto andando a dare un esame, secondo te come va?” E lui: “Che esame?”. “Storia dell'India, tremila pagine, praticamente dal Big-Bang all'altro ieri”. Lui rise: “Secondo me ti fai una gran figura di merda, però lo passi”. Ci azzeccò: figura di merda colossale (sbagliai tutti i nomi degli imperatori – Chandragupta o come cazzo si chiamavano – e confusi l'induismo col buddhismo) ma presi diciotto perchè – secondo il professore - “se le dicessi di tornare alla prossima sessione lei si presenterebbe ancora più impreparato”. Manolo divenne il mio eroe, un mito. Un giorno arrivò una nuova docente da Milano, una psicologa famosa. Forte del suo curriculum, decise di fare il fenomeno e di “redimere” Manolo: partì con una introduzione sul concetto di tempo cercando di dimostrargli quanto stesse perdendo tempo e quanto ne facesse perdere agli studenti. Manolo, pacato e deciso, corresse una serie di osservazioni della Dottoressa (Walter Benjamin, non ci capii nulla) e concluse: “... e comunque, mia cara Signora, da una buona mezz'ora l'unica persona che sta realmente perdendo del tempo è Lei”. A vent'anni uno così non puoi non amarlo.

Alla fine, tutte le mattine prima di andare a lezione mi sedevo sul primo gradino, offrivo una sigaretta a Manolo e scambiavo due parole con lui, cercando di evitare la filosofia (l'essere, l'infinito, il Nous... non ci ho mai capito niente) e portandolo su un tema a me più congeniale: la musica. Jimi Hendrix, i Doors, i Jefferson Airplane... sapeva il fatto suo anche di musica. Per un periodo armeggiava spesso con una clavietta, e una volta il mio amico Claudio (uno di quelli che a Manolo non si avvicivinavano perchè “era un drogato”, come se la cosa fosse contagiosa), che si vantava di essere un grande esperto musicale, si fermò e gli disse: “Ma che te ne fai di quella roba, che la suonano alle Scuole Medie?”. Manolo rispose: “Ma tornaci alle Scuole Medie và, che questo era lo strumento di Augustus Pablo!”. Claudio, che non aveva mai sentito parlare di Augustus Pablo, non si fermò mai più.

Certo, il più delle volte Manolo dormiva, e allora io mi fermavo con Lella. Lella era favolosa, era l' “anima candida” di Manolo (che – si diceva – spesso si lasciava un po' andare con certe droghe sintetiche), era la sua guardia, i suoi occhi quando lui dormiva. Era vecchia e puzzava di piscio in maniera vergognosa, Manolo diceva che aveva “forse vent'anni, ma è vicina a me da quando sono nato”. Probabilmente era così: non ho mai visto Manolo darle da mangiare eppure lei non accettava mai cibo da nessuno. Se Manolo faceva un passo (non che succedesse molto spesso), lei faceva altrettanto. Se Manolo le diceva: “Lella, birra”, lei con il muso spingeva le lattine di Moretti verso di lui. Una barista per barboni. Anche a Lella piaceva la musica rock, ma la sua vera, insana passione era “Born Slippy” degli Underworld. “Trainspotting” era il film del momento, e quel pezzo si sentiva ovunque. Lella, forse perchè anche la sua vita con Manolo era un po' “Trainspotting”, quando sentiva quella canzone impazziva letteralmente. Perdeva il controllo, iniziava a correre che sembrava dovesse esploderle il cuore, girava intorno alla struttura dei gradini finchè il pezzo non finiva, l'adrenalina la rendeva persino sorda ai richiami del suo padrone (“Lella, andiamo, sta brava che schiatti”). Una volta partì la versione "extended" di “Born Slippy” durante un rave (eventi a cui Manolo partecipava quasi sempre) e Lella corse a perdifiato intorno alla stanza per undici minuti e quarantuno fino a svenire in un angolo, prontamente soccorsa e portata all'aria aperta. Ad un certo punto quel brano non era più degli Underworld, era diventata la “canzone di Lella”. C'era una gioia contagiosa nelle sue corse, qualcosa di più stupefacente di tutte le pastiglie che Manolo raccontava di aver provato. Era qualcosa di liberatorio, che sconfiggeva il tempo (“Manolo, ma sei sicuro che quell'affarino ha vent'anni?”) e profumava di libertà assoluta. Durante le sue galoppate techno-trance Lella non perdeva mai di vista Manolo, girava intorno, correva fino al marciapiede di fronte, ma ad ogni curva, ad ogni cambio di passo, cercava lo sguardo del suo compagno di vita.

Born Slippy” è un pezzo folle come le corse di Lella, nel testo (aggiunto nella versione “NUXX”, uscita poco dopo l'originale – per bocca degli autori - “per scherzo”) ci sono un un cane (“Drive boy dog boy”) e la birra (“lager, lager, lager”): quando lo mettevano nei locali ballarlo fino alla fine era una sfida col tuo corpo perchè quel ritmo non finisce mai, e quando mi capitava di doverlo fare ridevo da solo perchè pensavo: “Cazzo, ci riesce Lella che è vecchia decrepita e pesa due chili e mezzo, e non ce la faccio io che ho vent'anni e ne peso settanta”. E' un brano chiuso, oscuro e dal ritmo serratissimo, eppure a me metteva allegria.

Col tempo le escursioni danzerecce di Lella sugli Underworld si fecero sempre più rare, perchè Manolo aveva chiesto a tutti (soprattutto a quelli che giravano armati di radio e lettori cd) di non metterla perchè “davvero prima o poi gli viene un infarto, e se mi muore la Lellina io non ho più un motivo per vivere”. Invece l'infarto venne a Manolo. Una sera due ragazzi di un centro sociale lo trovarono agonizzante sui gradini, lo caricarono in macchina e corsero all'ospedale. Non ci fu niente da fare. I medici parlarono di “conseguenze da intossicazione”, nessuno seppe mai quanto l'intossicazione fosse volontaria. Pare che qualche genio regalasse porcherie fatte in casa a Manolo per poi chiedergli una sorta di “recensione” sugli effetti che causavano. Aveva quarantacinque anni, si scoprì che Manolo non era neanche il suo vero nome. Nessuno (a parte qualche studente e qualche amico del centro sociale) andò al suo funerale. Non aveva parenti, non aveva davvero nessuno al mondo. Aveva solo Lella, la cagnetta che sulla coda finale acida di “Born Slippy” sembrava acquistare velocità, sospinta da un' energia misteriosa. Lella rimase sui gradini per sei mesi, era diventata magrissima e dimostrava tutti i suoi anni. I bei tempi degli Underworld e delle gocce di Moretti succhiate dalla barba di Manolo erano finiti. I ragazzi del centro sociale provarono ad adottarla, la portarono con loro, ma lei piangeva. Il suo posto era sul primo gradino, perchè prima o poi su quel gradino sarebbe riapparso Manolo, che nel frattempo si era addormentato chissà dove.

Una mattina ero lì, seduto accanto a Lella che faticosamente stava mangiando un pezzo di pane dalla mia mano. Aveva gli occhi spenti, non si alzava nemmeno più. Notai quanto fosse uguale a Manolo quando era ubriaco. Mi accorsi che voleva morire, aveva capito che Manolo non sarebbe mai tornato. Pensai che avrei dovuto portarla da un veterinario e farla sopprimere. Ma chi ero io per prendere una decisione simile? E cosa avrebbero detto Manolo e le sue teorie sulla vita e sul destino? Il destino, invece, decise per me: davanti ai gradini si fermò una bella macchina con gli interni in pelle, ne uscì un fighetto che non avevo mai visto prima, seguito da due sciacquine che ridacchiavano. Il tizio puntò il dito nella mia direzione e disse: “Ecco, è quello lì il cane”. Poi rimise la testa nell'abitacolo e “Born Slippy” partì ad un volume spropositato: Lella scattò in piedi, tese i nervi che le rimanevano attaccati alle ossa e partì come una pazza: salì i gradini, poi risaltò giù sul marciapiede e iniziò a correre. Dopo cento metri mi accorsi che c'era qualcosa di strano: Lella non si girava, perchè sapeva che non c'era lo sguardo di Manolo su di lei. Continuava a correre verso lo stradone mentre provavo a gridare al fighetto di spegnere lo stereo, ma la musica copriva le mie grida (“Boy and you just groan boy/She said comeover comeover”). Decisi di rincorrerla, ero ben allenato e giocavo a calcio tutti i giorni, ma Lella era una campionessa: la fame, il dolore e l'età non avevano piegato il suo istinto, io la chiamavo col fiato spezzato dalla corsa usando le frasi di Manolo (“Lella, andiamooo!”), ma lei non si girava, e ad un certo punto abbassò il culo, incastrò la testa tra le spalle e divenne un fulmine, mentre la musica sfumava dietro di noi (“Lager, lager, lager”). Dopo un chilometro capii che non sarebbe mai tornata, divenne un puntino lontano che schizzava sull'asfalto, incurante delle macchine che aveva imparato a temere (non attraversava mai la strada se Manolo non le diceva “Andiamooo”), ad un certo punto raggiunse il controviale di un grande Corso, superò i sei metri dei binari del tram con un salto, attraversò e girò a destra, sempre correndo. Il confronto era impari, mi piegai su un fianco stremato e sudato, come quando provavo a ballare “Born Slippy” fino alla fine. Lella era fisicamente superiore e io lo sapevo. La cercarono per mezza città ma nessuno sa che fine abbia fatto. Si dice, però, che adesso sia con Manolo su un gradino del cielo (ma a che serve un gradino in cielo?), e che ogni tanto si conceda ancora una corsa folle sulle note di “Born Slippy”.

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Sor90 alle 20:19 del 11 febbraio 2013 ha scritto:

Come al solito, gran bella storia Passare davanti a Palazzo Nuovo non sarà più la stessa cosa!

target alle 14:50 del 13 febbraio 2013 ha scritto:

Gran pezzo. Dico sia quello di Fabio sia quello degli Underworld. L'ultima volta che l'ho ballato, l'estate scorsa (a un matrimonio!), sono riuscito ad arrivare (stremato e sudato) fino alla fine: una droga, "Born slippy".

bargeld alle 10:07 del 14 febbraio 2013 ha scritto:

Quando visiterò Torino la prossima volta (l'ultima non conoscevo Fabio), dedicherò una giornata a un tour geografico-letterario a tema Codias-Blatto. Cosa vi danno da mangiare in città, pane ed emozioni?

fgodzilla alle 16:18 del 3 maggio 2013 ha scritto:

sei sempre il mio mito , ancora ,ancora.......