Live @ Lou Reed (Milano, 10 Luglio 2007, Teatro degli Arcimboldi)
L’occasione è pomposa, il piatto è ricco, e mi ci ficco. Sul piatto c’è “Berlin”, un classico del Rock incompreso nel 1973, un ensemble di fiati ed archi di sette elementi, un’ottima corista soul circondata da un coro di dodici voci bianche, c’è l’immancabile band di Lou Reed con l’aggiunta del chitarrista originale Steve Hunter, per un totale di quasi trenta esecutori, c’è un film girato appositamente da Julian Schnabel e la direzione musicale di Bob Ezrin.
Il tutto nella futuristica cornice del Teatro degli Arcimboldi di Milano. Vedo già Lester Bangs correre dietro le quinte per dire due paroline a Lou Reed, se non fosse che è scomparso più di venti anni fa e tutto quello che può fare è scuotere la testa da lassù o da laggiù o da dovunque si trovi. Per fortuna, o purtroppo, le mie vedute sono diverse e ho sempre approvato l’evoluzione verso forme più complesse, le contaminazioni teatrali, la musica che si fa multimediale. L’idea di ascoltare “Berlin” riveduto e corretto mi ha eccitato: ero curioso di sapere fin dove poteva spingersi Lou Reed nell’abbattere i luoghi comuni del rock dopo il tour tra musica e poesia di “The Raven”.
Vorrei mettere in chiaro fin da subito la mia opinabilissima impressione: in questo spettacolo c’è tutto tranne “Berlin”. C’è l’orchestra, il coro di bambini, il rock e un allestimento scenico che ricorda le opere del pittore simbolista Gustave Moreau, ma quello di cui personalmente sento la mancanza è l’idea di “Berlin”. Ho sentito lunghe code strumentali martellanti e distorte (“Men of good fortune”), ma non ho sentito la sporcizia delle bettole dove canta la protagonista del disco. Ho ascoltato ballate acustiche appena toccate dagli archi (“The kids”, “Caroline says II”) ma non ho percepito la disperata solitudine della coppia di antieroi. Ho notato imponenti sezioni di fiati intrecciarsi con parti corali (“Lady Day”, “Caroline says I”) ma non ho avvertito il Muro simbolo di incomunicabilità.
Ho assaggiato la voce bassa di Lou Reed avvolta nel jazz del pianista Rupert Christie (“Berlin”), ma non ho annusato la perdizione e il fumo dei locali della città mitteleuropea. Ho distinto i bisbigli e i fantasmi (“The bed”) ma non ho riconosciuto le stesse angosce spettrali. Forse l’unico momento che mi ha fatto realmente sussultare è stato la chiusura prima dell’encore: una “Sad song” sublime e ispirata che raggiunge un climax esplosivo tra fiati e chitarre lancinanti, archi incalzanti, bassi vigorosi e cori angelici. La band ci lascia con un trittico di successi parzialmente riarrangiati, identici in scaletta per tutta la durata de tour: “Sweet jane”, “Satellite of love”, “Walk on the wild side”.
Spettacolo perfetto, curatissimo, mai edulcorato o autoindulgente; Lou Reed, abbastanza gigione in alcune situazioni, rispetta quasi sempre gli arrangiamenti originali riuscendo anche a sorprendere e non annoiare mai. La band è affiatata eppure la messinscena è così attenta a ricostruire il concetto da far mancare la depravazione (lungi da me un giudizio morale) che sta alla base di questo; certamente l’ambiente circostante non aiuta, ma quello di cui ho sentito l’assenza è lo spirito d’insofferenza che ha mosso l’artista a scrivere questi brani. Non si può pretendere che, passati i sessanta, il musicista di New York si senta come il tossico che ha scritto l’opera, per fortuna aggiungerei, ma allora perché mettere mano ad un progetto simile? A mio avviso il tentativo di regalare sacralità ad un album del genere gli toglie proprio uno dei suoi principali meriti, cioè quello di non essere sacro ma decadente. Come se Lou Reed avesse bisogno di giustificare la sua arte presso un pubblico di tromboni e classicisti annoiati.
Nel 1973 la rivista Rolling Stone criticò l’album scrivendo “Ci sono alcuni dischi che sono così apertamente offensivi che si desidera prendersi una sorta di vendetta sugli artisti che li hanno perpetrati”. Vero: un disco malato, ossessionante, offensivo, negativo, nichilista. Chi si vuole offendere rendendo il disco solenne e pulito, se non il disco stesso? La scelta di portarlo nei teatri secondo queste modalità a mio avviso significa snaturarne il concetto sottraendogli le atmosfere che lo rendono un classico. Cosa sarebbe successo se avesse asciugato gli arrangiamenti oppure optato per una rappresentazione più umile? Per chiudere sottolineo che la mia visione non vuole imporsi come critica oggettiva ma esprimere una sensazione che porta a chiedermi: dove sono le anfetamine e le paranoie? Berlino, dove sei?
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