R Recensione

8/10

John Zorn, Lou Reed & Laurie Anderson

The Stone (Issue Three)

Singin’ in the rain.

Tre newyorchesi a spasso per la Grande Mela. Tutto molto semplice e chiaro, non vi pare? No, non è il titolo del nuovo film tutto zucchero e sentimento dell’attorucolo a stelle e strisce in voga al momento. Bensì qualcosa di molto superiore ed esaltante.

Tre newyorchesi, dicevamo, ma non tre persone qualunque. Perché non tuffarci nella città e conoscerli uno ad uno? Detto, fatto. L’uomo che sta camminando verso di voi, con quei ridicoli pantaloncini sgargianti ed un ghigno sardonico spalmato sulla faccia, è monsieur John Zorn, il terrorista del sax, del quale, su queste pagine, si dovrebbero oramai ben sapere provenienza, carriera e sfavillanti meraviglie artistiche. Alla sua sinistra, stretta in un elegante scialle, risiede una donna piccola e minuta, dai capelli molto corti e dagli occhi vivaci. Costei è Laurie Anderson, sessantunenne affascinante “narratrice di storie” –per sua stessa definizione-, talentuosa musicista ed inventrice di un nuovo strumento, il cosiddetto tape bow violin, con una testina da registratore a sostituire le corde ed un nastro magnetico teso sull’archetto. Per completare il cast della nuova festa delle incongruenze, ecco con lei il suo neo-marito. E che neo-marito. Vi guarda curioso, mentre sbuccia una banana. Non a caso, data l’importanza che il frutto sudamericano risiede nella sua sconfinata carriera. Si chiama Reed, Lou Reed. Lo stesso che fu la mente dei Velvet Underground, lo stesso che trent’anni orsono incise quel delirio di “Metal Machine Music”, lo stesso che fu amico intimo di Andy Warhol. E veste di nero, il colore della morte di un angelo.

È un connubio che difficilmente verrebbe in mente, se non sotto influenza psicotropa, si direbbe. Eppure, eccoli qui, tutti felicemente assieme. Il motivo? Una serie di concerti di beneficenza (“benefit gigs”) per risanare la pessima situazione finanziaria in cui versa un locale della loro città natia, il “The Stone” del titolo che, aneddoto nell’aneddoto, è gestito in prima persona proprio da John Zorn. Iniziativa, quindi, voluta fortemente dallo stesso sassofonista, che orchestra la direzione del terzetto. “The Stone (Issue Three)”, perciò, è la terza parte del progetto, una registrazione live del concerto tenuto dai Nostri in aprile. Tre come il numero di capitoli finora formati, ma tre anche come il numero dei pezzi che sono presenti nel lavoro. Tutti brani abbondantemente sopra i dieci minuti (il primo addirittura va oltre i venti) per un disco, almeno ad un impatto esterno, certamente affascinante ed intrigante.

Ora, premesso che certe collaborazioni, ancor più se eclatanti, clamorose e divergenti come questa, si rivelano essere o dei colpi di genio fulminanti oppure, altresì, degli enormi fallimenti, proprio perché sterile tentativo di unire universi fra loro inconciliabili sia nella scrittura che nel modo di pensare e suonare la musica, potete tirare un sospiro di sollievo. Il combo, tirate le somme, non è né una né l’altra cosa: il risultato è, sommariamente, quello che ci si poteva aspettare, senza cali o scivoloni creativi, ma nemmeno senza eccessivi sussulti. La montagna non ha partorito il topolino, questo è sicuro.

New York non è solo la metropoli di provenienza dei tre artisti ma, più nello specifico, la vera e propria colonna sonora di questo viaggio di cinquanta minuti. La prima avanguardia nasce e si sviluppa attorno a questo bacino, l’avanguardia è il territorio in cui Zorn, Reed e la Anderson, seppur con modi e tempi differenti, hanno mosso molti dei passi più importanti per i rispettivi curriculum, ed è quindi l’avanguardia, senza preoccuparci di scomodare Lapalisse, la password d’accesso al database di “The Stone (Issue Three)”.

Vi infastidiscono le scorribande chitarristiche in totale libertà, che sembrano non portare da nessuna parte? Nutrite una certa avversione nei confronti di tutto ciò che non segua un ritmo ed una melodia ben precisa? Non riuscite ad afferrare come in un pezzo possano convivere centinaia di spunti differenti senza mai per questo annoiare o, peggio ancora, ingarbugliarsi? Soffrite le stoccate jazzcore del buon Zorn? Credete che una formazione a violino elettrico, sax e chitarra non potrà mai ridestare in voi una passione genuina? Allora, semplicemente, state lontani da questo bootleg. Se, invece, vi considerate dei buoni ascoltatori, degli erculei stacanovisti o, semplicemente, degli amanti di sonorità mai scontate e fini a loro stesse, cogliete la palla al balzo.

La “Part 1”, apertura dell’evento e sopraffina mise d’eleganza per il disco, è ensamble dell’astrattismo e schizzo pittorico degli spunti visionari della triade. Difficile mettere paletti alla sperimentazione amorfa che schizza dai rispettivi strumenti, altrettanto arduo è voler riconoscere a forza solidi punti di riferimento nel continuo costruire e disfare armonico. Si possono, però, ben distinguere due momenti: nel primo, si alternano frantumi di psichedelia à la Red Crayola e disfattismi free jazz, con punte di dissonante violenza acustica dove Zorn svetta sovrano; nel secondo compare distintamente anche l’ombra di Laurie Anderson, e la matassa comincia a sbrogliarsi su canoni più malleabili, con il sax che si accomoda su un binario molto più quieto, supervisionato dall’estro di Reed. L’ascolto diventa assai più agevole anche se, non per questo, meno aspro.

Esaurite anzitempo le cartucce più pregiate, “The Stone (Issue Three)” si fa più frammentario ed incerto, a tratti parecchio criptico. “Part 2” è un trip ammorbante che vede fare la spola fra gli spigolosi ed instabili ricami della sei corde di Mr. VU e le distorsioni violinistiche della sua amabile consorte, che stravolgono l’originale austerità del suo strumento in una straniante abluzione fra industrial teutonico e kraut rock. Zorn interviene solo a tratti, ma non sempre con la sadica furia hardcore sviluppatasi sin dagli storici Naked City. Anche il suo suono è caracollante, disturbante, sempre alla deriva in un coacervo di feedback, ritmico ed ipnotico.

Part 3” è anch’essa una nuova cosa rispetto alle due che l’avevano preceduta. Qui il tono si rarefa, diventa sotterraneo, pieno di reticenze e di strane bulimie architettoniche. Parrebbe di guardare oltre la famosa siepe leopardiana, cruccio e delizia di decine di generazioni studentesche, e scoprirci un wormhole tutto nuovo ed eccitante. È il minimalismo, o comunque una simile sensazione, a permeare questi dodici minuti. Ma poi scatta come qualcosa, e Lou Reed si mette subito sull’attenti: con lui, la sua chitarra. Inseparabili, i due. Ed è di nuovo una danza rumoristica che anche Zorn e la Anderson prendono per mano. Ma delicatamente, senza l’irruenza del chitarrista.

John Zorn, Lou Reed e Laurie Anderson: centosettantadue anni in tre. “Largo ai giovani!”, direbbe qualcuno. Io ribatto: come non volere bene a New York?

(Il disco è downloadabile a pagamento solo dal sito della Tzadik o, a scelta, dal sito ufficiale del progetto, www.thestonenyc.com)

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 3 voti.
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krikka 6/10
merman 6/10
REBBY 6/10

C Commenti

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Gabs alle 14:51 del 23 luglio 2009 ha scritto:

bello, bello, bello!!!

Quoto e approvo in toto! Il ciddì si compra pure per 28 USD$ spese postali incluse. Arriva a casa in una settimana. Detesto il taglio nelle alte frequenze del formato compresso, quindi io sono per il CD. Sono soldi spesi bene in ogni caso...e per un disco di questi tempi è quasi un miracolo.

Il progetto Stone è interessantissimo, anche se a mio parere il vero mattatore è sempre lui, John Zorn. Lo amo quest'uomo, è un grande musicista! Lou Lou è oltremodo tonico e Laurie Anderson piuttosto sperimentale. Acquisto consigliatissimo.