Bonnie Prince Billy
Ask Forgiveness EP
Ormai il cantautore del Kentucky ci ha abituato a tutto: cascate di capolavori folk (“Master and everyone”, “Ease down the road”, “Then the letting go”), torrenti lo-fi prima che fosse moda (la discografia a nome Palace), collaborazioni sperimentali (Matt Sweeney, Tortoise, David Pajo), perle di struggente oscurità (“I see a darkness”), impetuosi duetti con le sue adepte (Pink Nasty, Scout Niblett, Dawn McCarthy) e molto altro. Con questo “Ask Forgiveness” Will Oldham domanda perdono, per cosa non so, e ci consegna otto rivisitazioni di altri artisti. Non è la prima volta che l’autore affronta delle cover.
Dal vivo è sua abitudine presentare qualche standard dell’America rurale, brani tratti da numi tutelari (Dylan, Springsteen, Cash, PJ Harvey, Cohen) ma anche ripescaggi improbabili, da Mariah Carey ai Cranberries, da Madonna ai Led Zeppelin, da Bob Marley ai Beach Boys. L’anno scorso aveva già visto la pubblicazione di “The Brave and the Bold”, disco di cover non eccelse elaborate con le già citate tartarughe post-rockeggianti di Chicago.
In questo EP siamo su altri sentieri e anche su altri livelli di qualità. Abbandonati i barocchismi condivisi con i colleghi Tortoise e i brividi islandesi dell’ultimo LP, il Bonnie torna ad incisioni dai tratti essenziali pur senza la crudezza rupestre degli anni Palace. Il repertorio come di consueto spazia dovunque: abbiamo il Dylan mancato Phil Ochs, Don Frankie (Sinatra), R. Kelly (pure lui?), un metallone (true? boh!) di nome Danzig, la stella del nord Bjork, i Mekons e Mickey Newbury. Chi conosce il genere ha già capito cosa aspettarsi: poche pennate sulla chitarra acustica completate da cenni di organetto, violino, campanelli cristallini, echi femminili. Agli altri vogliamo solamente dire che la voce di Will Oldham è la più espressiva, emozionante, intensa e sincera di tutto il cantautorato americano degli ultimi 10/15 anni.
E se vi interessa non solo la voce ma anche l’autore, allora provate a pescare a caso dal mucchio di dischi citati all’inizio e scoprirete che qui stiamo parlando del più grande erede del folk sghembo, capace di spaziare dalla ballata al post-rock, mantenendo intatta la sua posizione su quel labile confine tra intimismo e classicismo, tra orecchiabilità e ricerca, tra poesia e divulgazione della tradizione. Oldham sa parlare a tutti, e solo lui riesce a farlo in quel modo. Quale, scopritelo voi, e iniziate concedendovi l’ascolto della sua “I See a Darkness” riletta da Johnny Cash su “American Recordings III”, brano in cui l’autore ha l’onore di duettare con uno dei suoi maestri.
Se Bob Dylan e Nick Drake erano e continuano ad essere imprescindibili, alla loro schiatta da molto tempo si è aggiunto Bonnie “Prince” Billy, e queste interpretazioni, più l’unico brano autografo “I’m loving the street”, ne sono l’ennesima conferma. Non rimane che inchinarsi al principe e rabbrividire per la voce e la scrittura che, tra meraviglie e scivoloni, sta salvando la semplicità e la purezza della canzone. Non esagero dicendo che abbiamo davanti l’anima limpida e plumbea di una certa America: prendete e ascoltatene tutti.
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