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R Recensione

8/10

Richard Hell & The Voidoids

Blank Generation

Le scelte sartoriali e lo stesso nome d'arte prescelto a metà anni '70 dal Kentucky Kid Richard Meyers, noto a tutti come Richard Hell, avevano indotto pubblico e parte della critica a parlare di un bluff.

L'amico-rivale Tom aveva optato per il decadentismo francese (Verlaine), decidendo di sfogare la propria vena autorale - e il proprio spleen decadente - in logoranti litanie della chitarra, scherzando col fuoro nell'era del punk (e di fatto, definendo il perimetro dell'art-punk, figlio della vecchia psichedelia underground della Grande Mela).

Richard invece – dopo le esperienze con i Television e con gli Heartbreakers - si era fatto un gruppo proprio, dimostrandosi tuttavia un po' infantile (Hell? Ma dai), se non quasi grottesco nella propria amara, implosiva infelicità.

I suoi atteggiamenti – decisamente esasperati/esasperanti - non aiutavano: Richard la caricatura del rocker/ poeta maledetto.

Dopo aver assaporato – ex post - qualche esibizione live, dove il suo volto contratto, la voce stremata e convulsa e la foga risultavano nel complesso sfacciatamente sgradevoli, anche io ho pensato di trovarmi davanti uno scherzo.

Sbagliavo.

La cosa spaventosa della filosofia Richard è infatti la sua autenticità: esiste una celebre intervista di Lester Bangs dove il ragazzo (quasi trentenne, per la verità) disegna la propria complessa weltangchauung. Una visione, una percezione dell'esistenza lucidissima, eppure morbosa.

Io la vedo in modo molto clinico, cioè”: così Richard conclude la propria riflessione sul rapporto fra “la fatica di stare in vita” e il beneficio che se ne trae, ovvero, in sostanza, inquadra tutto il significato della parola uomo in una sinistra e diabolica equazione.

Un brano di “Blank Generation” si intitola “Who Says (It's Good To Be Alive)”, e dipinge l'esistenza umana come una forma di tossicodipendenza (once you're born, you're addicted).

E' allora quasi paradossale che “Blank Generation” sia supportato da una vitalità prodigiosa. Il punk colto nasce qui, tanto che parlare di art-punk non è una bestemmia. Anzi, direi che qui nasce il punk e basta, si perfeziona i suoi ultimi dettagli, gli si mette addosso l'abito giusto.

Sì, siamo agli albori del movimento, McLaren pescherà a piene mani nelle reti di Hell (oltre che dei Ramones, naturalmente), eppure Richard è già oltre. Troppo raffinato, narciso e blasfemo per risultare semplicemente un punk.

Come Lydon, anche se i due abitano pianeti diversi, Richard è un cervello sopraffino prestato alla musica dei cavernicoli.

Proviene dagli ambienti intellettuali di New York dove faranno proseliti Patti Smith e Tom Verlaine, e ha stretto un legame di sangue con l'importanza nuda e cruda che la new-wave attribuisce al significato dell'arte. Significato? Forse è più corretto parlare di missione.

Per Richard il rock è un modo per dare ossigeno alla propria adolescenza, un'adolescenza prolungata che lo indurrà a confessare “Non ho risolto nessuno di quei dilemmi”.

Hell completa l'opera iniziata dal rock oltre 20 anni prima, ovvero eleva la banalità al livello di una rivelazione. Scova l'ignoto nel noto: ma sostituisce all'edonismo liberatorio dell'epoca di Elvis con il suo decadentisimo nero.

Rende giustizia alla fase cruciale dell'esistenza, quella in cui si è costretti dalle circostanze e misurarsi con gli interrogativi più importanti.

La sua è una generazione vuota, distante anni luce dagli ideali della Woodstock Nation, eppure per Richard il termine vuoto va inteso nella sua accezione positiva: il vuoto può essere riempito come ti garba, il vuoto è libertà (emblematica in tal senso la scelta stilistica della title-track, quando a un certo punto declama “I belong to the ________ generation”, omettendo l'uso della parola blank, quasi invitasse l'ascoltatore a metterci del proprio).

Ripartiamo proprio dalla title-track, punk-rock sgangherato in cui però le sublimi, virtuose chitarre di Robert Quine e Ivan Julian sono la canzone, accanto alla voca sgolata, sguaiata, sconvolta dalle stesse emozioni di cui si fa portatrice e interprete. Quine in particolare sembra quasi mettere a tempo punk le intuzioni tenebrose del Miles Davis elettrico: la chiave della parola art-punk sta proprio nella sua straordinaria maestria con le sei corde, e si traduce in un linguaggio visionario, che non rifugge gli assolto ma assegna loro un nuovo significato (Quine è non a caso il grande guitar hero della generazione punk, accanto naturalmente al sommo Tom Verlaine, per chi scrive il numero uno assoluto).

Lo spirito di Lou Reed e dei Velvet aleggia ovunque, ma Richard ci mette una voce e una verve da ragazzino impestato che privano la musica della sua aura da teatro mitteleuropeo, e le regalano invece una grande sfrontatezza post-adolescenziale. Le ballate sono degne del repertorio reediano: la tenera “I'm Your Man” è il Lou dei tardi Velvet catapultato nell'era punk, “The Plan” è altrettanto toccante e sfrontata.

Art-punk, dicevamo: ecco “Another World”, 8 minuti di fantasia del duo Quine-Julian, che - sfidando da pari a pari l'immacolato Verlaine - rimasticano Velvet, Grateful Dead e dinosauri vari immergendoli nel rumore. Richard è mesto: “Potrei vivere con te in un altro mondo”: la sua musica non è evasione, ma la ricerca continua di una possibile evasione. “Il mio unico desidero è andarmene da qui”, non importa quale sia il qui, aggiunge prontamente.

E l'amore? Non cambia molto il quadro delle cose, stando a “Love Comes in Spurts”, sospesa fra il ghigno acido di Hell e il lavoro superbo di chitarre affilate e in odore di Television (messi però sempre a tempo punk).

Il giro di “Betrayal Takes Two” è puro e irrisolto decadentismo televisionano, mentre “New Pleasures” è rock'n'roll articolato e maledetto, che fa sfoggio ancora una volta delle voci stralunate della chitarra

Hell è “uno dei più grandi rocker” del mondo, secondo Bangs, e in effetti risulta difficile sopravvalutare l'importanza capitale della sua opera.

Richard porta la poesia di Dylan e Lou Reed – ma soprattutto il maledettismo del beatnik evocato in chiave post-moderna - a celebrare il matrimonio con un sound sfrangiato, tanto apparentemente sfilacciato quanto capace di sublimi virtuosismi. Ma soprattutto Richard “inventa” il pathos del punk.

I Ramones del punk sono il suono, le fondamenta. Lui fa qualcosa di diverso: inserisce nel corpo dei Ramones un cuore, in modo che alla loro (voluta) sciatteria contenutistica da cartone animato si sostituiscano interrogativi esistenziali eterni.

Riassumo: disco di una potenza espressiva tanto ruvida quanto dolcemente poetica, l'anello di congiunzione fra mille cose diverse.

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zagor 9/10
gramsci 8,5/10

C Commenti

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benoitbrisefer (ha votato 8 questo disco) alle 0:22 del 21 settembre 2015 ha scritto:

Gran bella recensione che restituisce a Richard Hell quel ruolo fondante del punk(wave) americano - assieme a Television, Ramones e tutti gli altri citati e non citati da Francesco - che troppo spesso è dimenticato!

FrancescoB, autore, alle 10:46 del 22 settembre 2015 ha scritto:

Vero, Richard è personaggio cardine, l'anello di congiunzione per eccellenza, un "poeta maledetto" del rock, fra i più grandi credo. Grazie per l'apprezzamento

zagor (ha votato 9 questo disco) alle 14:07 del 25 settembre 2015 ha scritto:

"another world" pezzo capolavoro, già proiettato verso la no wave e i sonic youth......disco assolutamente irripetibile.

Totalblamblam alle 18:47 del 25 settembre 2015 ha scritto:

concordo e ricorda anche i pere ubu quella sorta di bizzarra obliquità pop

FrancescoB, autore, alle 9:56 del 26 settembre 2015 ha scritto:

Vero. Il bello per me sta nella vena autorale (Reed, Dylan) sposata all'impeto punk, ma si avvertono echi di ciò che verrà su molti fronti, come spero di aver lasciato intendere