Suicide
Suicide
Si dice che il suicidio sia espressione di un’oscura e segreta volontà di vivere. Ciò che sembra una contraddizione senza eguali è in realtà un macabro effetto radicato nella città del consumo. È qui che potremmo facilmente cogitare sul concetto di delitto “di ambiente”(senza dover scomodare l’anima lucida del famoso maestro russo); è questo il limbo scheletrico sul quale si scagliano i ‘blues’ elettronici dei “Suicide”. M’azzardo a definirli ‘blues’ anche se siamo ben lontani dalle umide sonorità del Delta ma, come dire, lo spirito è sempre lo stesso.
Scriveva Erich Fromm: “Nel passato, il pericolo era che gli uomini diventassero schiavi; il pericolo del futuro è che diventino robot”, ed i “Suicide” lo sanno bene, ma è anche vero che bisogna stare al passo coi tempi se si vuole conservare una certa estraneità (eccola un’altra antinomia) senza esserne inghiottiti. Ne consegue l’audace amplesso dei newyorkesi Alan Vega (voce) e Martin Rev (tastiere ed elettronica): il primo raccatta lo stereotipo della rockstar maledetta smembrandolo e riducendolo a nebbia di mestizia pura e sbuffi d’ansia; il secondo a presiedere il meccanismo lisergico, il battito automatico, l’inanimata sequenza armonica che danza circolare fra logorii, paranoie, tormenti continui. Parto di tale incongruenza sono brandelli sonori, affreschi metropolitani, squilibri nutriti nelle stanze più remote del mondo, danze luciferine al tabernacolo del nulla eterno. La voce di Vega esala respiri prostrati, si liquefa in fremiti; poi coagula in serpentine passionali, implosioni d’ira, strilli ribelli. L’uomo che vi si rappresenta è l’anima accartocciata che tenta la risalita in spasmi subitanei e crampi cerebrali.
Le superfici sonore fucinate da Rev, però, non sono di facile appiglio; l’ipnotico tessuto armonico ed il sincopato pattern percussivo emulano quel ritmo della vita che si deforma presto in apatia esistenziale, malessere giornaliero, vita presa per assuefazione. Un’alchimia letale fra organismi dal respiro autonomo: da un lato l’uomo, dall’altro l’equilibrio meccanico che sovrintende la quotidianità. Ci s’impiega poco a comprendere quale spesso sia l’esito del conflitto (della contraddizione, se vogliamo procedere per questa strada) ed il perché del nome scelto dal duo newyorkese.
Così l’ossessività è il fluido impazzito che scorre in brani come “Frankie Teardrop”, lunga suite catartica che fa da sfondo al delitto e al conseguente suicidio del protagonista Frankie, agnello sacrificale al banchetto del modernismo, incubo paradigmatico di un’epoca intera. La teatralità di Vega si stempera in un sibilo angosciante quanto il silenzio mentre la ritmica pulsa in contrazioni adrenaliniche rasentando il collasso.
Visioni circolari, feedback spasmodici, trance cianotica, ecco riemergere le cuspidi del tormento in “Che”, con la sua ansia levigata, ormai incapace d’intendere o volere e l’organo di Rev che traccia melodie sinusoidali in una discesa cosmica sino agli inferi; oppure in “Rocket U.S.A.”, dove Vega ripropone quella frenesia schizoide cara all’ “Iguana”, proiettandola però nell’era tecnologica; il canto si dilata, evapora in sospiri riverberati, si raggruma in tic sonori eludendo così il battito perentorio – aleatorio della sezione ritmica.
“Acid Techno” se mi si accorda l’espressione, dove “Acid” vuole richiamare l’ “Acid Rock”, perché, si, i Suicide sono avanguardia, ma senza disimparare il passato. Ecco allora il rockabilly in chiave elettronica, in brani come “Ghost Rider” e “Johnny”; rockabilly inacidito, deturpato, proteso verso futuri sanguinolenti, tecnologici, eterni.
Destrutturazione materiale che è anche emotiva, perché nella nuova era anche il sentimento è etichettato e svenduto. Così “Cheree” affonda melodie degne del Reed più romantico in soluzioni basiche; la voce guizza in abissi d’amarezza, contempla clitoridi illibati dai balconi dell’incubo, si culla fra l’innocenza psicotica d’una melodia fanciullesca suonata da Rev in uno stato di grazia morbosa. Il carillon erotico di “Girl”, con la sua melodia smorfiosa, i suoi gemiti inoculati, i ricami seducenti dell’organo, le abrasioni vocali, completa un opera che nel 1977 lasciò un’escoriazione dalla quale la storia del rock non fu più in grado di guarire.
Una testimonianza agghiacciante, e brucia davvero.
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