R Recensione

8/10

Clouwbeck

From Which The River Rises

Ha senso recensire un lavoro pubblicato in edizione limitata dalla minuscola etichetta casalinga (sustain-release private press) di un musicista, e che è possibile acquistare solo contattando direttamente l’autore? Me lo sono domandato per settimane, prima di decidermi a farlo. Poi mi sono detto che il formato, la distribuzione, la probabile diffusione (o non diffusione) non c’entrano nulla con il valore di un’opera. E così, visto e considerato che a mio avviso si tratta nel caso specifico di un lavoro di grande interesse, mi sono deciso a scrivere per voi queste poche righe. Dietro il moniker Clouwbeck si cela il mio amato (così mettiamo in chiaro che ne parlo da vero “fissato”, e quindi probabilmente ne straparlo) Richard Skelton, autore, a mio parere, di uno dei dischi più originali, particolari ed emozionanti dell’anno. Quel “Landings” con il quale il nostro ha portato a compimento un lavoro di ricerca sonora svoltosi per oltre un lustro.

Skelton pubblica musica utilizzando, oltre il suo nome, diversi moniker (Heidika, Harlassen, Carousell ecc...), ed il bello è che ad ognuno di essi riserva un intero mondo musicale, un particolare modo di approcciare il suo lavoro di ricerca. A tale proposito, per chi ne fosse interessato, il punto ideale di partenza per conoscere il mondo di questo musicista ritengo possa essere quanto pubblicato a nome A Broken Consort, dove vi è un pò la sintesi di tutte le sue esperienze artistiche, tra l’altro con risultati splendidi.

Col moniker Clouwbeck ha da sempre pubblicato le sue registrazione più quiete, quasi classiche: il violino e pochi altri strumenti acustici in bella evidenza, rendendo al contempo la componente ambient / field recordings, in altri casi corposa, relegata in un angolo. Le coordinate sonore sono quindi già state chiarite con i precedenti cd Clouwbeck, “A moraine” e “Wolfrahm”, ma in questo ultimo “From which the river rises”, Skelton rende questo aspetto del suo mondo musicale in modo ancora più peculiare. Due sole tracce piuttosto lunghe, basate essenzialmente sulla reiterazione di loop dronici classicheggianti (violini soprattutto) che nascono, crescono in pienezza e volume, per poi scomparire e nella quiete rinascere, ripetendosi con piccole variazioni, quasi minimali. Viene creata una solennità solo all’apparenza placida e tranquilla, ma in realtà profonda, angosciosa, drammatica nel senso più pieno della parola. La ripetizione quasi della stessa trama sonora, che si alimenta fino quasi ad “urlare”, per poi desistere lentamente, scomparire e risorgere quasi uguale a se stessa, è straniante. Quasi una deriva circolare che mi ha lasciato sbigottito e senza difese, con la netta sensazione che l’autore si sia trovato (e ci trasporti) da solo(i) davanti ad una domanda fondamentale: restare o andare via? Un uomo con lo sguardo perso nel momento che se ne va, incapace ovviamente di bloccarlo. Un’angoscia, un senso di perdita, un fardello doloroso che sembra schiacciante, e che forse solo il volume della musica che cresce, urlando il suo dolore, possono lenire. Basterà davvero?

Qui Skelton non scortica il violino, non lo taglia, non succede cioè quanto mirabilmente scritto da target in merito a “Landings” (“come taglia il violino è fantastico: scortica”), piuttosto l’autore procede circolarmente, ad onde lente, quiete ma nelle diverse sfumature ed intrecci melodici realizza un vero e proprio “sali e scendi” emozionale. In “The Water’s Burden” la presenza di un pianoforte che contrappunta i suoni dei violini, dona ulteriore drammaticità alla musica. Qui le pause sono più marcate rispetto alla prima traccia (“Come the Aegir”), e la musica quasi si spegne, c’è e non c’è. Ti lascia e ti riprende. Ti stordisce. Un accumulo emotivo che non trova mai sfogo, uno struggimento angoscioso ed angosciante. L’epicità del dolore e dell’angoscia. Potremmo definirlo “minimalismo epico”. Se la musica fosse una medicina (oddio, forse lo è davvero, almeno per me), vi consiglierei di ascoltare “From which the river rises” nelle vostre notti insonni, non per addormentarvi con essa, ma per viverne in simbiosi la natura straniante che i nostri sensi nelle ore notturne sapranno amplificare.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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gull, autore, alle 18:37 del 19 ottobre 2010 ha scritto:

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