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R Recensione

7/10

Dirty Beaches

Stateless

Da oltre un anno Alex Zhang Hungtai vive da sradicato, lontano dagli Stati Uniti, in giro per il mondo, ogni tanto aggiungendo un piccolo tour in qualche zona remota dell’universo, ma per lo più vagabondando con il suo kit di strumenti e mixer, spinto da quella che è facile immaginare sia una profonda, ma non perciò venefica, inquietudine. Di base a Lisbona (dove è stato registrato il disco), si muove, in realtà, continuamente, tra il sudest asiatico, il medio e l’estremo oriente, e soprattutto l’Europa. “Stateless” è il diario strumentale di questo spaesamento: il Dirty Beaches apolide su disco.

E’ naturale che non ci siano parole: i quattro brani che compongono l’album sono ritratti visivi di un uomo che si affaccia in continuazione sulla propria stessa solitudine, amplificata dalla mancanza di un paesaggio familiare. La prima impressione è disturbante: “Displaced”, in apertura, è un’ubriacatura di sax frenetici e scomposti sopra una viola che, piuttosto che distendere, graffia e lacera ulteriormente (come un Richard Skelton con surplus di perdizione). Come già alcuni stupendi pezzi di “Drifters/Love Is The Devil”, l’ambient di Hungtai si risolve in realtà in una paradossale negazione della categoria stessa di “ambient”: è totale dis-ambientamento, un-Heimlich, rappresentazione di un luogo (o di un insieme di luoghi) destinato a sfuggire sempre e a non poter essere posseduto.

In “Stateless” il fondo di un drone pecioso e possente trasmette tutta la disperazione di questa impotenza, mentre gli archi sembrano fungere da puntello funebre. (Qua il video). Solo “Pacific Ocean”, nel terzo movimento, riesce a librarsi su bordoni più aerei che fanno perdere il senso opprimente del proprio isolamento, mentre “Time Washes Away Everything”, in coda, lava via con la malinconia di un addio lunghissimo (e Dirty Beaches infatti muore qui). I suoi ipnotici 15 minuti riprendono il tessuto di viola del primo pezzo, abbassando il grado di ansietà, su distensioni più epiche, che danno alla liberazione una sembianza di resa. Gran pezzo. 

Hungtai mi sembra il primo vero interprete sperimentale della nuova, contemporanea, forma di inappartenenza. Della vera solitudine occidentale. Pubblicasse non solo su disco, una volta all’anno, ma in continuazione, in tempo reale, dai luoghi sperduti e dalle città straniere che attraversa, la sua musica avrebbe forse un impatto ancora più potente. Resto comunque dell’opinione che solo dopo “Badlands” Hungtai abbia trovato la propria vera strada. E che sia una delle strade più interessanti da esplorare.

Due note finali: la viola è suonata da Vittorio Demarin, trevigiano ex Father Murphy. Hungtai, che su twitter ha modificato in Last Lizard il proprio nome, ha annunciato l'annullamento di tutte le date previste da qua a fine anno e la fine del progetto Dirty Beaches.

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