Richard Youngs
Beyond The Valley Of Ultrahits
Per chi non avesse familiarità col lavoro del musicista domiciliato a Glasgow, è bene chiarire fin d’ora che quest’uomo tutto può. Badate, non sto scherzando né scrivendo sotto acido: quest’uomo tutto può. Qualche definizione tanto per inquadrare (possibile?) il personaggio: “il rinvigorente del free-rock” (The Wire), “il miglior erede del rock in opposition, di Canterbury, del folk progressivo”, (Blow Up), “gran cerimoniere dell’improv britannica contemporanea (…); ambasciatore di guerra e pace, amore e angoscia” (NME). Soddisfatti? No? Allora sappiate che ‘sto tizio son quasi due decenni che delizia le platee underground con un suono capace di spaziare dal folk anglosassone alla drone music, dal minimalismo all’avant rock, dalla musique concrète al cantautorato e adesso anche al (synth) pop.
Verrebbe da definirlo “musicista totale” se il termine non fosse così old-style, inflazionato, e per lo più corrotto da un approccio alla “sono cool e faccio tutto distrattamente” da cui il pubblico più sveglio ha ormai imparato a diffidare. Youngs fa tutto emotivamente, invece, seguendo un percorso che potrebbe definirsi delle tre “i” (Moratti, vade retro!): intuito, illuminazione, improvvisazione. I maligni ne aggiungerebbero una quarta, “iper-prolificità”, in ragione della discografia sterminata e sterminante del Nostro (oltre cinquanta gli album pubblicati, e resto sul vago perché avrò senz’altro perso numerosi cd-r per strada). Vero, ma dimenticano che il bardo britannico ha dalla sua un rapporto qualità-quantità che straccia chiunque nel settore “avant & affini”: quattro opere imprescindibili più altre sei/sette poco men che bellissime. Ce n’è abbastanza per mettere a tacere qualsiasi linguaccia. Soprattutto, ce n'è abbastanza per "vivere" una musica vibrante d’infinità (immemore) umanità, che spesso commuove per grazia melodica e senso di “costruzione”.
Fin da subito annunciato come il disco “pop” di Youngs, “Beyond The Valley Of Ultrahits” sconvolge e commuove (di nuovo…) per quel suo riaffermare, nell’apparente diversità, l’unicità dello sguardo. Un disco che nella sua compostezza/fluidità melodica appare comunque sghembo, asimmetrico, con synth e tastiere analogiche a tessere suoni alieni ma caldi, drum machine paonazze (“The Valley In Flight” riporta alla mente addirittura i Silver Apples), qualche infiltrazione di feedback chitarristici in odor d’atonalità. E poi la voce, gente, la voce. Quella voce divina e imperfetta (o divinamente imperfetta, come poteva esserlo quella del guru Robert Wyatt), impastata di folk, registrata in multitraccia per costituire gomitoli di melodie (la solare “Oh Reality”), mantra celesti (il controcanto di “Collapsing Stars”), polifonie gregoriane sorte chissà come da un angolo della discoteca (“Love In The Great Outdoors” e il suo beat house che procede a singhiozzo). Voce che resta, mi si perdoni l’ovvietà, fra i più smaglianti lasciti dell’ultimo ventennio. E ho detto tutto.
Un senso di inquieta ma raggiante armonia cosmica abbraccia tutto l’album, irradiando di luce benigna episodi come l’acustica “Summer Void” (un omaggio a Skip Spence?) o gli struggenti poemi “Like A Sailor” e “Radio Innocence”, dove la grazia aerea di un Peter Gabriel sembra sposarsi al Brian Eno di “Taking Tiger Mountain By Strategy”. Ma si tratta di riferimenti da prendere con le molle, giacchè la lingua parlata è, ancora una volta, soltanto di Youngs. E ben venga la conclusiva “Sun Points At The World” a lasciarci con un gusto acidognolo in bocca, fra gemiti astrali e quella linea di batteria così pigra e scoordinata: sublime attimo di smarrimento, parimenti incapace d’intaccare una poetica fatta di concetti semplici, che celebra l’attrattiva degli elementi naturali, il pulsare del cosmo nel nostro organismo.
Un mondo a misura d’uomo, quello di Richard Youngs. Un mondo umile, dimesso, e per questo straordinario. Un mondo in cui “less is more”, dove non serve trincerarsi dietro l’inintelligibilità per stupire orecchie e cuori. Accade così che il lavoro più accessibile dell'artista sia anche uno dei suoi capolavori, degno di figurare accanto a pietre miliari come l’esordio “Advent” (1990), “Sapphie” (1998, uno dei dischi fondamentali della decade) e la portentosa scultura di overdub a nome “The Naive Shaman” (2005). Ribadisco: quest’uomo tutto può. A noi comuni mortali è dato solo di riconoscerne e invidiarne – bonariamente, s’intende – il talento.
LINK:
MySpace: http://www.myspace.com/richardyoungsmusic
VIDEO:
- "Soon It Will Be Fire" (da "Sapphie") live in Cesena: http://www.youtube.com/watch?v=-ctXkQnrx5U&feature=related
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