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R Recensione

7,5/10

MOLE

What's the meaning?

Questo è un cd da giallisti dell’ascolto, pieno di false piste, enigmi  ed interrogativi, a partire da quello del titolo. Innanzitutto non fatevi fuorviare dal nome del gruppo e dalle prime note del pezzo iniziale “PB”:  le talpe di Robert Wyatt e la vaga aria di Canterbury non c’entrano nulla  con questo lavoro, decisamente lontano da qualsiasi epigono progressive. In realtà Mole andrebbe pronunciato “Mo-lay” ed è il nome di una piccante salsa messicana, omaggio alle origini dei due componenti fissi del gruppo Mark Aanderud , tastierista e autore di tutti gli otto pezzi, ed il batterista  Hernan Hecht (anche nell’organico dei Brainkiller) , entrambi nomi noti della scena sudamericana , già collaboratori, fra gli altri, di The Mars Volta e Tim Berne. Lasciate perdere anche i Pink Floyd , evocati dai dati anagrafici del chitarrista David Gilmore : la sei corde , coprotagonista , insieme alle tastiere, di “What’s the meaning? ” è in realtà nelle mani dell’omonimo fedele collaboratore del jazzista Steve Coleman,  autore di innovative sintesi fra jazz e altre musiche sotto la sigla di M- movement. E allora , qual è il significato, cioè l’identità di questi settanta minuti di musica? Sentiamo che ne dicono i Mole stessi:  “ Ci sentiamo vicini a gruppi come Phronesis, E.S.T. e Kurt Rosenwinkel – dice il leader Aanderud -  e,  per la componente elettronica,  Sigur Rós, Massive Attack e Radiohead.”

 Fra tutti i nomi citati è quello di Esbjorn Svensson Trio a venire  evocato  più spesso lungo il corso del cd ,  anche se nei Mole  prevale la impronta melodica dei temi di Aanderud,  c’è un maggior tasso di rock assicurato dalla chitarra di Gilmore, e sono assenti, o quasi, le parti più sperimentali tipiche dell’universo sonoro degli svedesi. Anzi qui,  addirittura in un paio di casi, la romantica “Stones” o  in “Greenland” , che richiama la vena più morbida  di Pat Metheny , c’è da sottolineare una carica comunicativa che potrebbe tradursi in piccoli hits per il gruppo e  l’etichetta londinese Rare Noise records. L’equilibrio fra temi scritti, spesso giocati sulla sovrapposizione dei piani sonori,  e le parti improvvisate di ispirazione jazzistica ,  affidate a piano e chitarra elettrici,  è un’altra delle costanti del lavoro: esemplari in tal senso la quieta “Trees and the old new ones”, che si avvia sulle  meditative note di Gilmore  per aprirsi sul suggestivo scenario condotto dal piano, dal basso di Jorge Molina e dal violoncello dell’ospite  Dorota Barova,  ovvero la mini suite rockeggiante “Flour tortilla variation”  condotta dalla elettrica di Gilmore,  o ancora i dieci minuti della conclusiva “Grubenid” , sviluppata su una ritmica soul funky , e ricca di dilatati dialoghi strumentali. Nonostante l’alto tasso  di perizia tecnica messa in campo dai quattro musicisti, le composizioni di Aanderud hanno il grosso pregio di evitare le classiche trappole della fusion fatta “da musicisti per musicisti” , catturando  cuore ed immaginazione dell’ascoltatore con vere e proprie storie raccontate con le note.

Prendete ad esempio la title track del cd. C’è un ostinato di basso su cui viene disegnato un evocativo  tema di piano poi  doppiato dalla chitarra , quindi il pezzo si sviluppa attraverso le parti soliste  del Wurlitzer di Aanderud e della chitarra di Gilmore, per tornare in chiusura al motivo iniziale ripreso in forma più rockeggiante. Sono nove minuti che scorrono in modo  molto  fluido e naturale, senza muscoli gonfiati da esibire, come si trattasse di un avvincente e rassicurante dialogo fra vecchi amici.

Chiamarlo post o avant jazz o in altro modo ancora è solo questione di gusti e sigle, quello che conta è la sostanza di un lavoro che colpisce  per ecletticità  e precisione nelle scelte espressive.

Un altro riuscito esempio di creatività basata sull’abbattimento delle barriere.

 

 

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