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R Recensione

9/10

The Soft Machine

Third

Con “Third” - un doppio stratosferico, uno di quei dischi che non smette mai di stupire per la sua creatività dirompente, per la sua capacità di abbattere gli steccati che separano i generi musicali, per l’inventiva strabiliante dei musicisti e per la maestosità del disegno complessivo - i Soft Machine si dimostrano non solo una delle band più talentuose della scuola di Canterbury, ma uno degli ensemble più colti e geniali della scena musicale inglese a cavallo fra i ’60 e i ’70. Nata dall'unione di alcune delle grandi menti creative dell'epoca - Robert Wyatt, Michael Ratledge, Kevin Ayers (presente solo nell’album di debutto) e Hugh Hopper - la “Macchina Molle” ha dato vita ad una rivoluzionaria fusione di rock, jazz, classica, minimalismo d'avanguardia, dadaismo, pittura astratta e teatro dell'assurdo (musica "patafisica" come amavano chiamarla loro) che si pone come una delle più significative conquiste dell’epoca. L'amalgama degli imput che ciascun musicista iniettava nel tessuto sonoro ha infatti creato un sound caotico, puntillista, pregno di quel caratteristico humour canterburiano fatto di nonsense, bizzarri giochi di parole e goliardia surreale che informa da capo a piedi i primi due pregevoli album della band.

Su "Third" il jazz prende il sopravvento e il sound si fa più serioso e rigido, ma anche più geniale ed avanguardistico. Presentandosi con una formazione allargata a otto elementi comprendente Elton Dean al sax alto, Lyn Dobson al sax soprano, Nick Evans al trombone, Rab Spall al violino e Jimmy Hastings al flauto e clarinetto basso (tutti musicisti jazz dell’orchestrina dell’ancora oggi poco conosciuto ma geniale Keith Tippett), il gruppo si dimostra più che mai immerso nelle intuizioni del Miles Davis elettrico, nel rumorismo, nel minimalismo d'avanguardia. Ai tre folletti che sprizzavano humour surreale da ogni poro si è sostituito un manipolo di seriosi musicisti jazz più smaliziati e consapevoli delle loro potenzialità. "Third" è infatti una fucina di idee, di stili, di tecniche compositive ed esecutive che si amalgamano in modo talmente originale da risultare unico. Ambiziosamente composto da quattro brani lunghi ed articolati (una per facciata dell'originario lp) che in gran parte abbandonano i toni infantili e il dadaismo bizzarro per aprirsi ad una maggiore compostezza strumentale, questo doppio album raggiunge quasi miracolosamente un invidiabile equilibrio fra forma e disgregazione della stessa, coniando un linguaggio che non è né jazz né rock, né tantomeno avanguardia pura, ma piuttosto una personalissima fusione di tutti questi modus operandi.

Autore di ben due composizioni che mostrano un vivo interesse per il jazz nelle sue forme post-bop e per le tecniche ripetitive del minimalismo di Terry Riley, Ratledge è forse il responsabile principale di questo nuovo corso. La stupefacente "Slightly All The Time" è infatti un intricato tema jazz esposto all'unisono da sax alto e sax soprano che passa attraverso un considerevole numero di variazioni e mette in fila un'impressionante galleria di interventi strumentali. Il brano segue una precisa logica costruttiva che alterna diverse sezioni (ciascuna con un tempo leggermente diverso, un proprio tema portante e dominata da un preciso mood) in cui si susseguono momenti contemplativi intrisi di lirismo (valga per tutti lo squisito duetto dei due flauti, da lasciare a bocca aperta) e zone di aspra frenesia, guidate con intelligenza dai solisti e nobilitate da un'incredibile lavoro di Wyatt alla batteria.

"Out-Bloody-Rageous” inizia con un impalpabile groviglio di tastiere registrate a diverse velocità che ripetono una serie di cellule tematiche neutre in continua mutazione (qui è evidente l’influenza della celestiale “A Rainbow In Curved Air”), per poi procedere alla scomposizione di un'unica frase nei suoi elementi costitutivi attraverso l'azione erosiva dei sax e del piano elettrico. La circolarità assoluta di questo brano è impressionante, un senso di eterno ritorno dell’identico che non viene scalfito né dalla metrica sghemba né dagli interventi strumentali. Anzi, la seconda parte è praticamente un susseguirsi di reiterate geometrie pianistiche che vengono poco a poco doppiate da tutti gli strumenti in una stupenda fanfara che sembra non avere mai fine. A chiudere il cerchio (manco a farlo apposta) il brano si conclude proprio là dov’era cominciato, disperdendosi nella nebulosa informe da cui aveva avuto origine.    

Con la sorprendente "Facelift", Hopper si dimostra invece l'elemento più affascinato dall'avanguardia rumorista e dal free-jazz. Il brano esordisce con un cupo drone di basso e le divagazioni atonali dell'organo che si fanno man mano più rumorose e cibernetiche (qui Ratledge sembra trasfigurare Stockhausen) alle quali si aggiungono i sibili strazianti dei fiati. Lentamente prende forma il tema principale (quasi comico) e con l'ingresso della batteria il ritmo si fa frenetico, ideale tappeto per le divagazioni strumentali di Ratledge e Dean. Ecco però farsi strada una breve sezione dominata dai battiti aritmici di presse meccaniche e percussioni assortite dalla quale il brano riemerge grazie alle danze leggere di un flauto incantatore, presto sostituito da un sax alto che guida la composizione verso il convulso finale dove viene smembrato il tema iniziale in un nastro fatto girare al contrario. Insomma: un capolavoro dalla prima all’ultima nota.

La suprema, assoluta "Moon In June" (uno dei vertici di tutto il progressive-rock britannico) conferma il talento di Wyatt oltre che come inarrivabile polistrumentista (canta, suona la batteria e tutte le tastiere) anche come autore. A differenza di Ratledge e Hopper, Wyatt non ha bisogno di trovare ispirazione nell'avanguardia o nel jazz: il suo linguaggio è talmente personale e profondo che basta a se stesso. "Moon In June" è sostanzialmente un susseguirsi di melodie che s'intrecciano e si abbracciano armoniosamente fra canti desolati o infantilmente stupefatti (ah, quella voce), un vaneggio libero della mente che gli strumenti si sforzano di cristallizzare. Questo stato d'animo a metà strada fra il buffo e il malinconico è tradotto in musica mediante l'utilizzo di materiali eterogenei quali il costante richiamo alle nursery rhymes e ai trucchi dada, ma soprattutto per mezzo di quel canto sommesso che sembra sgorgare da un'anima abbandonata a se stessa. Dalla voce di Wyatt (un misto fra scat da neonato e un registro tenorile in falsetto) trapela un senso di malinconia universale (più avanti sfocerà in abbandono cosmico) che è sì languido e trasognato, ma soprattutto fragile e profondamente umano. Musicalmente parlando, poi, l'immaginazione del batterista è superba: le melodie citano ora i mantra psichedelici, ora la tristezza degli chansonnier francesi o l'epicità del sinfonismo romantico; la ritmica segue i percorsi tortuosi del canto con repentini cambi di ritmo, corse folli, digressioni altrettanto inaspettate; le tastiere affrescano poi questi paesaggi mentali con accordi oceanici, passaggi densi di patos e assoli trepidanti. Wyatt, però, è anche e soprattutto un irriducibile dadaista e così, oltre a disseminare lungo il percorso bizzarre trovate surreali, imposta la seconda parte del brano come una incalzante fuga dove gli strumenti, rincorrendosi a perdifiato, disegnano le traiettorie più impensabili. Il finale è claustrofobico e delirante: gli accordi minimali del pianoforte elettrico, il terribile pulsare del basso distorto, le percussioni indiavolate, la spettrale canzoncina canticchiata sottovoce e il lamento atonale di un violino proveniente da un nastro fatto scorrere a diverse velocità creano uno scenario allucinato e cubista che riporta ai primi giorni della "musica patafisica" ma se ne distanzia per il tono alienato e dolorosamente schizofrenico.

Insomma, Third è uno stupefacente manifesto creativo, ineguagliato per profondità ed originalità da tutto il resto della discografia dei Soft Machine, che da lì in avanti perderanno il talento multiforme di Wyatt e si areneranno in un sound che, seppur prodigo di qualche altro colpo di genio (si veda l’ardito e frastagliato "Fourth" del ’71 dominato da Ratledge e Hopper, opera quanto mai tesa alla dissoluzione delle strutture ritmiche ed armoniche), perderà in brillantezza ed espressività, fino a farsi puro manierismo. E’ peraltro incredibile notare come l’influenza di questo lavoro storico si sia propagata fino ai giorni nostri: il sound circolare, inafferrabile, denso e pulsante di Third ha ispirato intere legioni di musicisti ed è ha avuto un ruolo decisivo per gli sviluppi di alcune fra le più importanti correnti della musica rock (la stessa scena di Canterbury, il progressive-rock, il post-rock, le recenti improvvisazioni noise-elettroniche). Insomma, non fate l’errore di non ascoltarlo, potreste perdervi qualcosa di unico e pentirvene, in futuro.

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Voto degli utenti: 9,5/10 in media su 43 voti.

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Cas (ha votato 9 questo disco) alle 11:55 del 19 giugno 2007 ha scritto:

Un album davvero geniale, dove la creatività di questi artisti sembra davvero essere infinita. Nonostante la lunghezza, i brani scorrono fluidi. Per non parlare poi di Wyatt, che anticipa alcuni temi del suo Rock Bottom. Complimenti quindi per la recensione, la condivido appieno!

Arnold Layne (ha votato 10 questo disco) alle 6:12 del primo luglio 2007 ha scritto:

10

In quel campo musicale enormemente vasto che, a ragione o meno, viene definito "rock", esistono inevitabilmente dei vertici, dei picchi, pochissimi a dir la verità, che molto spesso trascendono il semplice gusto personale, ma anzi restano lì in alto stabili e incontestabili, rafforzati da dati di fatto, da considerazioni ineffabilmente oggettive. E se assolutizzare può sembrare infantile, è pur vero che i bambini sono la voce della verità. Esiste, esiste musica senza tempo, assolutamente non etichettabile, non databile, da esplorare, liberi e abbandonati, musica da ascoltare, e quindi difficile da descrivere. In questi casi anche il termine "free" sarebbe riduttivo. Musica, l'arte sonora dell'espressione dei sentimenti umani, esplorati in profondità. E' quel che ha ben saputo fare Wyatt, appunto. Mi piace definire "multistrato" quei dischi che regalano nuove sensazioni diverse anche al millesimo ascolto, o più semplicemente "classici", nel senso che non hanno mai finito e mai finiranno di comunicarci i loro intenti. Sono davvero pochi, e Third è uno di questi. Third, 1970. O meglio, Third, XX secolo. Creatività, fantasia, originalità, tecnica, passione, Arte. Opera inconcepibile, e difatti i Soft Machine dovettero "scendere a patti", affidando le 4 suite a membri diversi, forse traendo spunto da ciò che avevano fatto i loro amici Pink Floyd l'anno prima con Ummagumma, ma con risultati tutt'altro che sperimentali; ciò molto probabilmente fu dovuto alle nascenti diatribe interne circa il percorso musicale che la band avrebbe dovuto adottare dopo One e Two, veri e propri calderoni di idee: chi stava più sul jazz-rock modale, chi su tematiche avanguardistiche, chi meno canonicamente sul dadaismo e sull'astrattismo (Wyatt). Dividersi il lavoro, insomma, è stata la scelta più ovvia e più giusta, visti i risultati. Peccato che per assimilare i 3/4 del disco ci sia bisogno di alcuni specifici ascolti alle spalle, onde evitare ostilità comprensive e cadere vittime della prolissità. Ciò che invece consiglierei a tutti, indipendentemente dal background musicale che uno ha, è appunto la sublime MOON IN JUNE, a tutt'oggi la miglior composizione che io abbia mai avuto modo di ascoltare, e tutto grazie a quel geniaccio di compositore, batterista e cantante che è Sir Robert Wyatt. Ma la recensione ne ha parlato benissimo e abbastanza, io mi fermo qui. Scusate se mi sono dilungato, ma ne sentivo il bisogno. Ciaoo )

Arnold Layne (ha votato 10 questo disco) alle 6:17 del primo luglio 2007 ha scritto:

..

Un'ultima sottigliezza: dopo "Volume Two" l'articolo "The" scompare davanti al nome del gruppo, quindi credo che forse sarebbe meglio scrivere solo "Soft Machine",siete d'accordo?

cthulhu (ha votato 9 questo disco) alle 14:54 del 4 settembre 2008 ha scritto:

Moon In June!!

Non impazzisco per il jazz-rock che qui fa capolino sull'esempio di "Bitches Brew" di Miles Davis ma la fantasia che promana da "Moon in June" non ha eguali, psichedelia deformata e patafisica, musica lasciata libera di fluire senza restrizioni

swansong (ha votato 10 questo disco) alle 15:14 del 18 settembre 2008 ha scritto:

Immenso...

difficile, a parole, descrivere la bellezza oggettiva ed intrinseca di un capolavoro senza tempo come questo...devo farti i complimenti perchè non era affatto facile riuscire a recensire così bene siffatta opera d'arte!

Totalblamblam (ha votato 10 questo disco) alle 11:55 del 5 novembre 2008 ha scritto:

i primi tre sono imprescindibili

il quarto non mi piace

il quinto è da "riscoprire"

comunque grandissima band

Ettore Derti (ha votato 10 questo disco) alle 11:12 del 3 dicembre 2008 ha scritto:

Eccezionale.

lev (ha votato 9 questo disco) alle 12:53 del 4 dicembre 2008 ha scritto:

grandissimo disco! peccato che lo abbia scoperto solo recentemente (grazie a questa recensione).

fredneil (ha votato 10 questo disco) alle 13:55 del 29 dicembre 2008 ha scritto:

peccato la produzione..quasi un contrappasso

La bella recensione, attenta e completa, rende giustizia a questo capolavoro.Aggiungo solo una nota: la produzione del disco è assolutamente pessima,una fra le peggiori che mi sia capitato di ascoltare (tra le altre: quelle relative a "The Family that plays together" degli Spirit, "Music in a Doll's House" dei Family, entrambi grandi opere con produzioni di "serie C").

Il suono è ovattato e smorzato,i crescendo acuti dei fiati producono un "effetto sirena", ed è paradossale,con una musica fatta di atmosfere, di scansioni ritmiche raffinatissime, di variazioni fiatistiche di altissimo livello.

fredneil (ha votato 10 questo disco) alle 13:56 del 29 dicembre 2008 ha scritto:

RE: peccato la produzione..quasi un contrappasso

bart (ha votato 9 questo disco) alle 15:14 del 14 aprile 2010 ha scritto:

Spettacolare!

bart (ha votato 9 questo disco) alle 12:38 del 15 aprile 2010 ha scritto:

Grandissimo salto di qualità rispetto ai primi due.

bart (ha votato 9 questo disco) alle 12:26 del 18 aprile 2010 ha scritto:

L'ho ascoltato l'ultima volta ieri sera ed è stata una goduria! Gli assoli di marca jazz, l'incantevole voce di Wyatt, il grande affiatamento di tutti i musicisti. A qualcuno può sembrare prolisso (e in effetti un pò lo è), però scorre via che è un piacere.

galassiagon (ha votato 9 questo disco) alle 18:23 del 2 ottobre 2010 ha scritto:

secondo me i primi due sono meglio

galassiagon (ha votato 9 questo disco) alle 17:38 del 24 febbraio 2011 ha scritto:

RE:

Voglio la scheda su Volume 2. Il disco più bello di sempre...in culo all'elettronica.

bart (ha votato 9 questo disco) alle 17:41 del 24 febbraio 2011 ha scritto:

RE: RE:

Puoi provare a scriverla tu.

galassiagon (ha votato 9 questo disco) alle 17:48 del 24 febbraio 2011 ha scritto:

RE: RE: RE:

Difficile...ci vuole un grande esperto. Non so se esiste uno all'altezza

bart (ha votato 9 questo disco) alle 18:11 del 24 febbraio 2011 ha scritto:

Non serve necessariamente un grande esperto. Il bello di questo sito è che chiunque può scrivere una recensione. Certo, non è scontato che poi venga pubblicata.

Alfredo Cota (ha votato 9 questo disco) alle 0:45 del 3 settembre 2011 ha scritto:

Una tela di Penelope questo album

dalvans (ha votato 10 questo disco) alle 15:06 del 23 settembre 2011 ha scritto:

Straordinario

Il primo ed unico capolavoro dei Soft Machine

Utente non più registrato alle 1:57 del 5 febbraio 2012 ha scritto:

Signori in piedi, Questa sì è la storia della musica...

CIMI (ha votato 8 questo disco) alle 12:50 del 21 ottobre 2012 ha scritto:

Mi inchino davanti a una delle lavori più interessanti e brillanti mai ascoltati, mi sorprende ogni volta di più, affascinante e strano anche il testo(MOON IN JUNE)

Paolo Nuzzi (ha votato 10 questo disco) alle 10:49 del 10 dicembre 2013 ha scritto:

Capolavoro assoluto. Uno dei massimi vertici della musica tutta. La voce di Wyatt, poi, è uno dei più bei doni concessi da Dio a noi mortali.

brogior alle 11:40 del 23 febbraio 2018 ha scritto:

sarò incapace di capire questo genere ma davvero non comprendo tanta enfasi, sarò limitato

Utente non più registrat (ha votato 9 questo disco) alle 21:12 del 6 dicembre 2018 ha scritto:

I Pink Floyd esordiscono con Piper... i Soft Machine rispondono con l'esordio... stravincono i Floyd.

Allora danno A Saucerful Of Secrets, mentre i SM danno alle stampe Volume Two. E ancora vincono i Floyd.

Poi entrambe le formazioni puntano più sull'ambizione, e i Floyd pubblicano lo splendido Ummagumma. I Soft Machine rispondono con Third, e IL SORPASSO FINALMENTE AVVENNE!!