The Soft Machine
Third
Con Third - un doppio stratosferico, uno di quei dischi che non smette mai di stupire per la sua creatività dirompente, per la sua capacità di abbattere gli steccati che separano i generi musicali, per linventiva strabiliante dei musicisti e per la maestosità del disegno complessivo - i Soft Machine si dimostrano non solo una delle band più talentuose della scuola di Canterbury, ma uno degli ensemble più colti e geniali della scena musicale inglese a cavallo fra i 60 e i 70. Nata dall'unione di alcune delle grandi menti creative dell'epoca - Robert Wyatt, Michael Ratledge, Kevin Ayers (presente solo nellalbum di debutto) e Hugh Hopper - la Macchina Molle ha dato vita ad una rivoluzionaria fusione di rock, jazz, classica, minimalismo d'avanguardia, dadaismo, pittura astratta e teatro dell'assurdo (musica "patafisica" come amavano chiamarla loro) che si pone come una delle più significative conquiste dellepoca. L'amalgama degli imput che ciascun musicista iniettava nel tessuto sonoro ha infatti creato un sound caotico, puntillista, pregno di quel caratteristico humour canterburiano fatto di nonsense, bizzarri giochi di parole e goliardia surreale che informa da capo a piedi i primi due pregevoli album della band.
Su "Third" il jazz prende il sopravvento e il sound si fa più serioso e rigido, ma anche più geniale ed avanguardistico. Presentandosi con una formazione allargata a otto elementi comprendente Elton Dean al sax alto, Lyn Dobson al sax soprano, Nick Evans al trombone, Rab Spall al violino e Jimmy Hastings al flauto e clarinetto basso (tutti musicisti jazz dellorchestrina dellancora oggi poco conosciuto ma geniale Keith Tippett), il gruppo si dimostra più che mai immerso nelle intuizioni del Miles Davis elettrico, nel rumorismo, nel minimalismo d'avanguardia. Ai tre folletti che sprizzavano humour surreale da ogni poro si è sostituito un manipolo di seriosi musicisti jazz più smaliziati e consapevoli delle loro potenzialità. "Third" è infatti una fucina di idee, di stili, di tecniche compositive ed esecutive che si amalgamano in modo talmente originale da risultare unico. Ambiziosamente composto da quattro brani lunghi ed articolati (una per facciata dell'originario lp) che in gran parte abbandonano i toni infantili e il dadaismo bizzarro per aprirsi ad una maggiore compostezza strumentale, questo doppio album raggiunge quasi miracolosamente un invidiabile equilibrio fra forma e disgregazione della stessa, coniando un linguaggio che non è né jazz né rock, né tantomeno avanguardia pura, ma piuttosto una personalissima fusione di tutti questi modus operandi.
Autore di ben due composizioni che mostrano un vivo interesse per il jazz nelle sue forme post-bop e per le tecniche ripetitive del minimalismo di Terry Riley, Ratledge è forse il responsabile principale di questo nuovo corso. La stupefacente "Slightly All The Time" è infatti un intricato tema jazz esposto all'unisono da sax alto e sax soprano che passa attraverso un considerevole numero di variazioni e mette in fila un'impressionante galleria di interventi strumentali. Il brano segue una precisa logica costruttiva che alterna diverse sezioni (ciascuna con un tempo leggermente diverso, un proprio tema portante e dominata da un preciso mood) in cui si susseguono momenti contemplativi intrisi di lirismo (valga per tutti lo squisito duetto dei due flauti, da lasciare a bocca aperta) e zone di aspra frenesia, guidate con intelligenza dai solisti e nobilitate da un'incredibile lavoro di Wyatt alla batteria.
"Out-Bloody-Rageous inizia con un impalpabile groviglio di tastiere registrate a diverse velocità che ripetono una serie di cellule tematiche neutre in continua mutazione (qui è evidente linfluenza della celestiale A Rainbow In Curved Air), per poi procedere alla scomposizione di un'unica frase nei suoi elementi costitutivi attraverso l'azione erosiva dei sax e del piano elettrico. La circolarità assoluta di questo brano è impressionante, un senso di eterno ritorno dellidentico che non viene scalfito né dalla metrica sghemba né dagli interventi strumentali. Anzi, la seconda parte è praticamente un susseguirsi di reiterate geometrie pianistiche che vengono poco a poco doppiate da tutti gli strumenti in una stupenda fanfara che sembra non avere mai fine. A chiudere il cerchio (manco a farlo apposta) il brano si conclude proprio là dovera cominciato, disperdendosi nella nebulosa informe da cui aveva avuto origine.
Con la sorprendente "Facelift", Hopper si dimostra invece l'elemento più affascinato dall'avanguardia rumorista e dal free-jazz. Il brano esordisce con un cupo drone di basso e le divagazioni atonali dell'organo che si fanno man mano più rumorose e cibernetiche (qui Ratledge sembra trasfigurare Stockhausen) alle quali si aggiungono i sibili strazianti dei fiati. Lentamente prende forma il tema principale (quasi comico) e con l'ingresso della batteria il ritmo si fa frenetico, ideale tappeto per le divagazioni strumentali di Ratledge e Dean. Ecco però farsi strada una breve sezione dominata dai battiti aritmici di presse meccaniche e percussioni assortite dalla quale il brano riemerge grazie alle danze leggere di un flauto incantatore, presto sostituito da un sax alto che guida la composizione verso il convulso finale dove viene smembrato il tema iniziale in un nastro fatto girare al contrario. Insomma: un capolavoro dalla prima allultima nota.
La suprema, assoluta "Moon In June" (uno dei vertici di tutto il progressive-rock britannico) conferma il talento di Wyatt oltre che come inarrivabile polistrumentista (canta, suona la batteria e tutte le tastiere) anche come autore. A differenza di Ratledge e Hopper, Wyatt non ha bisogno di trovare ispirazione nell'avanguardia o nel jazz: il suo linguaggio è talmente personale e profondo che basta a se stesso. "Moon In June" è sostanzialmente un susseguirsi di melodie che s'intrecciano e si abbracciano armoniosamente fra canti desolati o infantilmente stupefatti (ah, quella voce), un vaneggio libero della mente che gli strumenti si sforzano di cristallizzare. Questo stato d'animo a metà strada fra il buffo e il malinconico è tradotto in musica mediante l'utilizzo di materiali eterogenei quali il costante richiamo alle nursery rhymes e ai trucchi dada, ma soprattutto per mezzo di quel canto sommesso che sembra sgorgare da un'anima abbandonata a se stessa. Dalla voce di Wyatt (un misto fra scat da neonato e un registro tenorile in falsetto) trapela un senso di malinconia universale (più avanti sfocerà in abbandono cosmico) che è sì languido e trasognato, ma soprattutto fragile e profondamente umano. Musicalmente parlando, poi, l'immaginazione del batterista è superba: le melodie citano ora i mantra psichedelici, ora la tristezza degli chansonnier francesi o l'epicità del sinfonismo romantico; la ritmica segue i percorsi tortuosi del canto con repentini cambi di ritmo, corse folli, digressioni altrettanto inaspettate; le tastiere affrescano poi questi paesaggi mentali con accordi oceanici, passaggi densi di patos e assoli trepidanti. Wyatt, però, è anche e soprattutto un irriducibile dadaista e così, oltre a disseminare lungo il percorso bizzarre trovate surreali, imposta la seconda parte del brano come una incalzante fuga dove gli strumenti, rincorrendosi a perdifiato, disegnano le traiettorie più impensabili. Il finale è claustrofobico e delirante: gli accordi minimali del pianoforte elettrico, il terribile pulsare del basso distorto, le percussioni indiavolate, la spettrale canzoncina canticchiata sottovoce e il lamento atonale di un violino proveniente da un nastro fatto scorrere a diverse velocità creano uno scenario allucinato e cubista che riporta ai primi giorni della "musica patafisica" ma se ne distanzia per il tono alienato e dolorosamente schizofrenico.
Insomma, Third è uno stupefacente manifesto creativo, ineguagliato per profondità ed originalità da tutto il resto della discografia dei Soft Machine, che da lì in avanti perderanno il talento multiforme di Wyatt e si areneranno in un sound che, seppur prodigo di qualche altro colpo di genio (si veda lardito e frastagliato "Fourth" del 71 dominato da Ratledge e Hopper, opera quanto mai tesa alla dissoluzione delle strutture ritmiche ed armoniche), perderà in brillantezza ed espressività, fino a farsi puro manierismo. E peraltro incredibile notare come linfluenza di questo lavoro storico si sia propagata fino ai giorni nostri: il sound circolare, inafferrabile, denso e pulsante di Third ha ispirato intere legioni di musicisti ed è ha avuto un ruolo decisivo per gli sviluppi di alcune fra le più importanti correnti della musica rock (la stessa scena di Canterbury, il progressive-rock, il post-rock, le recenti improvvisazioni noise-elettroniche). Insomma, non fate lerrore di non ascoltarlo, potreste perdervi qualcosa di unico e pentirvene, in futuro.
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