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R Recensione

8/10

Bruce Peninsula

Open Flames

Il mondo intero aspettava con ansia e fiducia il ritorno dei Bruce Peninsula.

Ok ok, il sottoscritto e qualche altro nerd sparso per il globo aspettavano con ansia e fiducia il ritorno dei Bruce Peninsula. La fiducia nasceva da quel disco d’esordio che non abbiamo timore di definire il migliore degli ultimi anni in ambito indie rock. L’ansia era causata dallo stato di salute del leader Neil Haverty, colpito dalla leucemia alla fine del 2010. Dopo aver scoperto la malattia ed aver iniziato la chemioterapia, Neil aveva annunciato: “Credetemi. Sentirete parlare presto dei Bruce Peninsula”. Ha mantenuto la parola: si è rimesso in sesto, ha seguito dal divano di casa le scorribande dei suoi compagni e amici (Katie Stelmanis negli Austra, Taylor Kirk nei Timber Timbre, Casey Mecija negli Obijou, Tamara Lindeman nei The Weather Station) e adesso ha riunito la banda al gran completo per presentare “Open Flames”.

Neil, e qui l’ansia si scioglie definitivamente, è in forma smagliante: un Bruce Springsteen assoldato dagli Arcade Fire, un Mark Lanegan al microfono dei Bodies Of Water, un Tom Waits sul palco con i Polyphonic Spree. La band poi, gira a mille, segno che la nostra fiducia era ben riposta.

Il tratto distintivo dell’esordio dei Bruce Peninsula (“A Mountain Is A Mouth” – 2009) era il suo saper sfiorare molti generi musicali senza doversi riconoscere in nessuno di essi. E il Canada “indie” dei Bruce Peninsula è ancora un non-luogo trapiantato in territori sconosciuti (gospel, folk, blues…), un concerto di fine anno nell’oratorio del rock, un’invocazione di fede profana. Le “fiamme libere” dei Bruce Peninsula bruciano zolfo e incenso, evocano Tommaso D’Aquino e Charles Darwin, rappresentano le due anime di Nick Cave in un raro momento di reciproca consapevolezza.

As Long As I Live” (già inclusa nella colonna sonora del film “Small Town Murder Songs”) introduce il disco su un basso devastante. Il coro interpreta il gospel più rock che abbiate mai ascoltato, rispondendo alla voce di Neil Haverty che “scartavetra” su una musica puramente ritmica, tribale, viscerale. “In Your Light” inserisce ricami di chitarre simili a quelle degli ultimi Dirty Projectors, ma è ancora una volta l'impianto ritmico a ribaltare calici e ostensori sull'altare. Haverty e il basso creano risposte anti-ritmiche rispetto al solito imponente coro prima di cedere il leggio ad una Misha Bower semplicemente divina.

Open Flames” mostra subito di essere un disco di livello superiore anche rispetto al suo illustre predecessore. La compenetrazione tra il coro (diventato ormai elemento primario e spesso “solista”) e le strutture musicali è perfetta: “Pull Me Under” è un saggio di bravura inarrivabile per chiunque, coraggioso e prezioso in un ambiente (quello generalmente considerato “indie-rock”) orientato sempre di più verso la semplificazione in chiave pop. I Bruce Peninsula vanno in senso opposto, creano sovrastrutture vocali, poliritmie, giocano con gli accenti, dimezzano le pause, annullano ogni ripetizione.

I Bruce Peninsula ormai possono concedersi tutto: ballate percussive per cerimonie funebri (la voce di Misha Bower in “Warden” è perfetta), esercizi di classe in equilibrio tra folk e pop-gotico (vedi i già citati Austra) ma improvvisamente (a dir poco) sferzati da innesti rock maestosi e oltremodo “corali” condotti dalle voci femminili appena sporcate dalla voce di Haverty (“Say Yeah”). E anche quando alle “ragazze” viene concessa intimità, su letti acustici campestri, non c'è mai un calo di tensione, un momento di tregua, in questa musica così viva, così infuocata (“Open Flame”). Per questo motivo mi si perdonerà il banale e pedissequo track-by-track, ma non è possibile tralasciare neanche l'improvviso cambio di rotta di una “Or So It Seems” che da semplice folk ballad diventa una marcia rituale guidata da banjo e batteria, il Neil Haverty in gran spolvero tra le progressioni melodiche di “Adrenaline” (provate a paragonarla alla banalità di gran parte dell'indie-rock contemporaneo) e la coda delirante fatta di gospel laico e tentazioni digitali. Le stesse tentazioni che tingono di nero la marcia mistica di “Cliffs & Coves” (e quel sax?) verso il finale compiutamente e (quasi) classicamente folk-rock di “Chupacabra”, e che lasciano in testa la sensazione di poter credere in un ulteriore, incredibile, futuro miglioramento.

Un album straordinario dalla prima all'ultima nota. Questa è l'ultima chiamata, Santo Dio. Ascoltate i Bruce Peninsula!

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Voto degli utenti: 6,9/10 in media su 8 voti.
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ciccio 7/10
REBBY 6/10

C Commenti

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nebraska82 (ha votato 7 questo disco) alle 14:06 del 3 ottobre 2011 ha scritto:

centro pieno anche questa volta.

Emiliano (ha votato 8 questo disco) alle 11:35 del 7 ottobre 2011 ha scritto:

Davvero un bel disco. Denso, complesso negli intrecci emotivi e con un coro che non è più arioso e pieno di promesse come nell'esordio ma si dimostra azeccatissimo nell'economia della tensione. nella mia top ten del 2011 da subito.

tarantula (ha votato 6 questo disco) alle 19:22 del 18 ottobre 2011 ha scritto:

Ho avuto molti dubbi sin dal primo ascolto ma ho voluto attendere un bel pò di ascolti prima di pronunciarmi. Indubbiamente ci sono 4-5 buoni pezzi tra i quali un sicuro capolavoro (Warden) ma nel complesso ho trovato anche parecchi punti deboli: brani come In your light, Open flame, Adrenaline, Chupacabra, hanno sempre i loro momenti buoni ma spesso si perdono in cambi di tempo e contro-ritmiche non sempre a fuoco.

gull alle 23:38 del 4 novembre 2011 ha scritto:

Non l'ho ancora ascoltato per come si deve. Nei miei ascolti è "cannibalizzato" dal disco d'esordio che per il momento mi ha preso decisamente di più.

Marco_Biasio (ha votato 8 questo disco) alle 13:05 del 5 novembre 2011 ha scritto:

Sono anch'io ai primi ascolti, ma sembra promettere benissimo. Certamente un ascolto diverso dal solito. La girandola di ritmi di "Adrenaline" per ora quella che mi ha impressionato di più.

Marco_Biasio (ha votato 8 questo disco) alle 20:00 del 9 novembre 2011 ha scritto:

Al primo approccio mi sono venuti in mente gli Arcade Fire, un paragone che però non può reggere alla lunga. La cosa assurda di un disco così, aldilà delle azzeccatissime armonie vocali e delle stratificazioni corali (molto gospel "laico" in questo senso, devo ammetterlo), è il lavoro fatto sulle trame strumentali. Probabilmente, a tratti, se non cantassero sopra, potrebbero tranquillamente passare per un gruppo math di Chicago qualsiasi (tipo in "Pull Me Under"), e la cosa è così singolare da non poter non piacere. Tempi dispari, cambi di tempo, molteplicità delle melodie, intarsi a matrioska... così dovrebbe essere ogni disco art pop che si comandi! Grande Fabio, non ne sbagli mai una.