Tom Waits
Rain Dogs
È più bello “Swordfishtrombones” o “Rain Dogs”? Ecco uno di quei bei dilemmi che la musica riesce a proporti senza concederti nemmeno il beneficio di trovare una risposta. In effetti la mia idea iniziale era proprio quella di fare una doppia recensione, una specie di sfida tra le due maggiori perle di Tom Waits, uno che nella sua carriera ha sfornato una quantità di album dal valore straordinario, sempre un po’ al di sopra di tutti i suoi colleghi (e dei suoi emuli, che sono parecchi).
La ragione di questa idea era proprio la continuità che, a mio parere, si nota fra le due opere, sicuramente diverse tra loro, ma molto vicine per diversi aspetti. In generale, tutta la discografia di Waits – con quale eccezione nei primi album – può essere letta da un lato sotto la luce dell’incredibile versatilità musicale dell’Orco di Pomona, che assorbe e ricompatta in singoli brani e dentro interi album una molteplicità di influenze culturali e musicali; dall’altro, invece, si può leggere la carriera waitsiana attraverso alcune impronte digitali che rendono riconoscibile il tocco dell’artista quasi subito, come per esempio la sua voce.
Comunque sia, l’idea della doppia recensione ho dovuto abbandonarla perché mi hanno soffiato “Swordfishtrombones” (me la sono cercata, colpa della pigrizia innata e del “non rimandare a domani quello che puoi fare dopodomani”), ma parlare di “Rain Dogs” è ugualmente soddisfacente.
Prima di tutto, partiamo da un punto sul quale – credo – siamo tutti d’accordo: Dogs è più musicale del suo predecessore, letteralmente impregnato di teatro fino al midollo. Più musicale vuol dire più accessibile, più forma-canzone, più… ma sì, diciamolo pure, purché non sia un insulto: più commerciale. Il che non toglie nulla alle 19 (diciannove!) canzoni che formano l’album, sfornato nel 1985, rispetto al picco di creatività di Sword. Eppure il picco di creatività è ancora in pieno svolgimento, quando esce “Rain Dogs”.
Waits, dopo aver dimostrato di avere nelle dieci dita una cultura musicale spaventosa, capace di passare dal vaudeville al blues, al jazz, alla ballata notturna, al tango e chissà a quant’altro ancora, dimostra con “Rain Dogs” di saper condensare tutti questi generi in strutture spesso semplici e meno arzigogolate rispetto all’album precedente. Naturalmente, ciò è al tempo stesso un pregio e un limite di Dogs: Waits non ha bisogno di risultare indigeribile per passare da erudito, ma per questo l’album stupisce di meno rispetto a Trombones dopo parecchi ascolti. Eppure, mentre di “Swordfishtrombones” resta, dopo l’ennesimo ascolto, la sensazione di stupore e di eclettismo, di teatralità e genio, con “Rain Dogs” restano quasi sempre in mente le canzoni. Mentre “Singapore” apre le danze in maniera eccellente, già si intuisce dove ci porterà l’Orco: di ruvidità ce n’è a iosa già dal veloce brano iniziale, ma è una ruvidità molto più umana. La Bestia di Sword pare essere più addomesticata, e in questo senso “Rain Dogs” è più emblematico del suo predecessore se osserviamo l’intera carriera waitsiana.
Impossibile collocare in “Swordfishtrombones” brani come “Clap Hands” o “Hang Down Your Head”, per il semplice fatto che seguono davvero una struttura classica (nel senso pop-rock del termine) e non teatral-avanguardistica come quasi tutti i brani Tromboniani, se escludiamo le eccezioni ovviamente.
I capolavori di questa diversa impostazione waitsiana sono tantissimi: dalla serenata acustica di “Time” a “Cemetery Polka” (quest’ultima beefheartiana declamazione poteva invece starci, su Sword), dal gran finale ubriaco di “Anywhere I Lay My Head” al rugginoso brano che dà il titolo all’album. Ci sono due immensi capolavori come “Jockey Full of Bourbon” e “Tango Till They’re Sore”, nei quali la voce catarrosa di Waits, espressiva, evocativa, nera, riesce quasi a nascondere i bellissimi arrangiamenti che sostengono i due brani.
Di materiale interessante ce ne è tantissimo, pirotecnico come sempre. “Rain Dogs” è un capolavoro, senza discussioni. L’unica pecca dell’album è proprio il fatto che Waits sembra aver capito come usare la sua dimestichezza con la cultura musicale del Novecento nello spazio di una canzone, senza cioè spingersi nella ricerca – anche esasperata ed esasperante – che lo aveva portato a “Swordfishtrombones”. “Rain Dogs” è più indottrinato, anche se parliamo sempre di musica di eccellente qualità, ci mancherebbe.
Insomma: “Rain Dogs” è il solito capolavoro sfornato dopo IL capolavoro: ed è per questo che io lo adoro, fino a dire che lo adoro più del suo predecessore.
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