R Recensione

7/10

Man Man

Rabbit Habits

Alcuni di voi conosceranno già i quattro loschi figuri di Filadelfia che vanno sotto la sigla di Man Man. Per coloro che non hanno ancora avuto la fortuna possiamo introdurli brevemente come una sorta di improbabile incrocio tra Tom Waits, Frank Zappa e Cab Calloway.

Del primo se ne mimano fedelmente i vocalizzi urticanti sfoggiati da Rain Dogs in poi, le pose da orco e l'amore per le chincagliere sonore del passato, dal vaudeville al teatro Brechtiano, sapientemente incrociate col verbo blues. Del secondo c'è l'approccio semiserio e l'indomabile istinto di frullare generi e stili e di passarci attraverso come meteore bulimiche e curiose. Del terzo c'è, naturalmente lo swing, elemento chiave nella musica del gruppo, che a tratti diviene così pregnante da far pensare ad un outtake drogata degli Squirrel Nut Zippers.

Six Demon Bag aveva fatto miracoli, in tal senso, portandosi dietro, in saccoccia, una manciata di pezzi travolgenti, destinati a traviare compilation bizzarre e movimentare serate alcooliche ormai spente.

Questo nuovo Rabbit Habits sembra intenzionato, apparentemente, a rilanciare: se le coordinate sonore di partenza restano le stesse, i nostri sembrano fermamente intenzionati ad ampliare ulteriormente la tavolozza stilistica, abbastanza da rendere zio Frank fiero e i Fiery Furnaces guardinghi e sospettosi.

Mister Jung Stuffed e Hurly/Burly sono l'ariete sonoro con cui i Man Man sferrano il primo, caotico attacco alle certezze che pensavamo di avere sul gruppo: scomposti frullati compositivi sospesi tra morbida cacofonia e improbabile immediatezza sonora.

Ma è con The Ballad of Butter Beans che i nostri decidono di scoprirsi, calando giù l'asso che non ci si aspettava: una rutilante, febbricitante, saltellante incursione nei territori dell'exotica che ci tira giù dalla sedia restituendoci paradossalmente i Man Man che conoscevamo: urticanti e swing epigoni di Cab Waits (o Tom Calloway, che dir si voglia). Improbabile miscela audioludica che torna a far battere il piedino e scuotere il bacino. C'è arte e mestiere anche nella marcetta blues indolente di Big Trouble, solito campionario da orchi ubriachi e swingers moribondi.

L'impressione comunque è che i nostri si divertano a non prendersi troppo sul serio: e così, dopo il doo wop scorticato di Doo Right, si riparte con le atmosfere alla Minnie the Moocher di Easy Eats Or Dirty Doctor Galapagos e ci si avvita a rotta di collo lungo i saliscendi ritmici di Harpoon Fever (Queequeg's Playhouse).

La voglia di sperimentare li porta talvolta a passi falsi, come nel goffo ragga sintetico di El Azteca, mentre il bisogno di ricaricare le batterie attraverso brani di chiusura più rilassati ci consente di gustare il “lato sensibile” della band: come nella title track per piano e clarinetto o nella splendida, notturna, Whalebones, composizione per bar fumosi e luci soffuse, nonchè ennesimo e finale omaggio al maestro Waits.

Un disco un gradino inferiore alle aspettative, azzoppato qua e là dalla smania di strafare, ma comunque destinato a trovare la via del lettore senza problemi. Consigliato a neoswingers nostalgici, cani randagi e a chi è convinto che in questi anni si possano ascolare solo epigoni dei Cure o dei Gang of Four.

V Voti

Voto degli utenti: 6,8/10 in media su 4 voti.
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gasmor 8/10
REBBY 7/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 8:13 del 19 maggio 2008 ha scritto:

Recensione che mi trova completamente d'accordo.

Io propongo Cab Callowaits.