Nick Cave and the Bad Seeds
The Good Son
Il rocker che incontra la fede dopo anni di abuso di droghe e vita spericolata è una delle specie più pericolose per la musica del diavolo. Innanzitutto perché, trattandosi appunto di musica del diavolo, la contraddizione è evidente. La ragione principale di questa pericolosità è però un’altra: il rocker devoto a un qualunque Grande Architetto è un personaggio insopportabile, simboleggiato da quel bambino viziato di Sting che volteggia in aria, nella posizione del loto, tipo Dhalsim di Street Fighter. Smette di fare dischi che contengano Musica con la M maiuscola (Sting, per portarsi avanti col lavoro, non ha mai iniziato a farli) e diventa un irritante prete salmodiante, parla come un illuminato in ogni intervista, racconta la sua esperienza spirituale con l’enfasi di Carlo Verdone nel ruolo del mitico Ruggero…
Nel caso di Nick Cave, però, ci troviamo di fronte all’eccezione: e che eccezione. The Good Son completa l’evoluzione di Cave come artista e come uomo, mistico e maledetto allo stesso tempo come un Bob Dylan più moderno. È un disco di parabole vicine proprio al menestrello di Duluth nello spirito e a Leonard Cohen nel tono metafisico. Parabole di perdizione, di ritorni, di abbandoni e di anime tormentate. E il tono del disco, quasi sempre sospeso tra dolcissimi mantra e disperate invocazioni, è una Bibbia personale di Cave. Foi Na Cruz è subito immersa in questo clima, e risente (anche nel testo) dell’influenza del Brasile, terra in cui Nick Cave è giunto proprio nel periodo in cui questa meravigliosa musica è stata concepita: il periodo in cui Cave ha “abbracciato la fede”, come si usa dire. Due accordi di chitarra aprono un arrangiamento delicato e carico di malinconia: un ritornello stupendo, cantato da voci basse e distese, è il centro di questo brano. Il pianoforte di Cave e gli splendidi arrangiamenti di Mick Harvey sono protagonisti della musica, mentre il testo parla di Gesù Cristo, dell’amore che bussa alla porta e non ti trova e di sogni. In questa dolce atmosfera, che ricrea quasi l’ambiente uterino, è impossibile non perdersi.
La stupenda title-track si apre con un coro gospel a cappella, con tanto di hand-clapping di accompagnamento, ma poi il ritmo ossessivo e la recitazione di Cave, sostenuti dalle chitarre graffianti di Blixa Bargeld (Einstürzende Neubauten) e da un incalzante arrangiamento, formano un mosaico di demoni, cadute, angosce e spirali senza uscita che Cave prova a sconfiggere soltanto con il ritornello, che preso da solo è disperato ma che nello Stige delle strofe sembra quasi una zattera cui affidarsi.
Il terzo brano è più disteso: Sorrow’s Child comincia con dei call-and-response fra i cori e la voce baritonale di Cave, che poi si lascia andare ad una melodia bellissima. Anche qui, è impossibile non sottolineare gli arrangiamenti perfetti, magniloquenti ma non ingombranti: si noti la parte centrale del brano, strumentale e impostata su un solo di pianoforte, prima di tornare alla parte cantata. Nella coda del brano sarà ripresa questa parte strumentale, mentre i cori continueranno a ripetere il titolo della canzone.
Il capolavoro del disco è però The Weeping Song, nella quale Cave e Bargeld interpretano un padre e un figlio che assistono a scene quasi dantesche di perdizione e disperazione:
- Padre, perché tutte le donne stanno piangendo?
- Stanno piangendo per i loro uomini.
- E allora perché anche tutti gli uomini stanno piangendo?
- Stanno piangendo in risposta a quelle.
La musica è affidata ad un ritmo quasi latino, con un vibrafono splendido a scandire i cambi di atmosfera: sinistra nelle strofe, più melodiosa nel fraseggio dell’introduzione, che riprende la melodia del ritornello.
La successiva The Ship Song è invece una tenerissima canzone d’amore, impostata sul piano di Cave e sulla sua voce da crooner, con un crescendo vocale e strumentale struggente che porta all’inciso. Il brano potrebbe essere la prima parte di un dittico amoroso, completato dal brano conclusivo Lucy. Brani in cui il tono da parabola biblica non viene abbandonato e la simbologia del disco torna prepotente (i ponti di The Ship Song, le campane di Lucy…), anche se ci si allontana un po’ dal clima apocalittico che permea gran parte dell’opera.
Altro capolavoro dell’album è il blues selvaggio di The Hammer Song, aperta da basso e vibrafono per poi sprofondare in una nuova parabola di perdizione. Anche qui la simbologia è importante: le visioni, gli angeli, il fiume, il numero sette, la fuga, la ricerca della propria terra…
L’elegante Lament conferma la dicotomia tra il tono apocalitto e quello disteso: notare l’ansia delle strofe e l’opposta distensione dei ritornelli.
Brano atipico nel contesto è, infine, The Witness Song, in cui Cave si butta a capofitto con tutti i suoi compagni di avventura per dar vita ad una specie di gospel accelerato, da cantare magari in una vecchia chiesa sconsacrata con un battito forsennato di mani.
I nove brani dell’album, quindi, lasciano esterrefatti per la varietà espressiva dell’autore, che è soprattutto un grande interprete di se stesso: qualunque sia l’ispirazione della sua musica, Cave riesce a trovare l’arrangiamento giusto per ogni brano. Basta confrontare le versioni del disco con le performance voce e piano per accorgersene: la melodia, l’accompagnamento di pianoforte e i pochi elementi di cui si dispone in fase di composizione fanno parte di un disegno più ampio che Nick Cave riesce ad avere ben chiaro in testa e che riesce a sviluppare insieme a dei musicisti di straordinario spessore. E qui torniamo al discorso di partenza, perché sono certo che l’ispirazione religiosa abbia aiutato il musicista australiano proprio nella capacità di saper estrarre dai pochi segni (musicali) a disposizione un messaggio universale di rara bellezza. È per questo che Nick Cave si piazza, con questo capolavoro e con altre opere magnifiche tra cui From Her to Eternity e Tender Prey, nell’olimpo dei più grandi musicisti rock di sempre: perché le sue parabole non sono mai soltanto dei racconti, ma indossano sempre le vesti dell’Assoluto.
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