Tom Waits
Frank's Wild Years
Quel licantropo incancrenito di Tom Waits è un artista a doppio taglio. Un traditore senza scrupoli.
Prima è talmente zuccheroso da sembrare un coma iperglicemico ambulante, poi si traveste da assassino, e fa il resoconto nei minimi particolari di tutte le crudeltà di cui ha disseminato la propria esistenza. Con la serenità di un lobotomizzato eroinomane in crisi di astinenza.
Hai deciso di struggerti per il suo Romanticismo Nero ("Blue Valentine"), quando lo vedi ridacchiare nella penombra mentre ti spiega che è tutta una truffa, che lui non sa cos'è l'amore e che ancora meno gliene importa. Vuole solo liberarsi da queste vagonate di miele e metterti un coltello nella schiena.
"Frank's Wild Years" è l'opera definitiva del Tom Waits-psicotico. Incanala gli eccessi di "Swordfishtrombones" (parlo di eccessi di gongolante bellezza) e l'eclettismo world di "Rain Dogs" verso un obiettivo nuovo, ovvero l'annientamento dell'uomo e del suo ingombrante senso di paranoia.
"Frank's Wild Years", opera teatrale in cui Tom recita da protagonista, è il suo disco più depresso e pesante, perché mette in sordina la natura eccentrica dei lavori precedenti e anche la dolce malinconia di "Blue Valentine", per dedicarsi all'orrore. Il suo è un film vivido, cerca (e cattura) una forma di alienazione tanto vasta e palpabile che assomiglia a una tragedia greca ambientata nel grembo degli Stati Uniti d'America, nelle migliaia di -ville popolate da stormi ruggenti di anime in pena.
Il protagonista ("Frank") è l'impiegato di un negozio di abbigliamento, che allieta le giornate degli avventori ricamando questi racconti dell'orrore, immaginando una brutale liberazione. Lo sterminio della famiglia, l'incendio della casa: i capisaldi della cultura americana fatti a brandelli con determinazione lucidissima.
Parlando di musica, mi preme evidenziare che la tavolozza di suoni, timbri e melodie è diventata luminosissima, carica di espressionismo. I brani sono innervati dalle sventagliate gelide dei fiati, traboccano di ritmi e di accenti diversi.
"I'll be gone" è una danza irlandese che gorgheggia di fughe impossibili, di lacerazione e di libertà inafferrabile. Il negozio, la vita di tutti i giorni diventano il bersaglio degli strali dell'autore, diventano le catene pesanti da cui si deve almeno provare a liberarsi.
Tutto ruota intorno all'idea del viaggio, che plasma ogni singola atmosfera: il country sonnolento e oscuro di "Yesterday is here" vaneggia di domani lontani e trasuda terrore per la routine quotidiana; "Straight to the Top (Rhumba)" è territorio di caccia per il solito Waits-incatramato, e gioca con ritmiche scandite.
Tom, nel tratteggiare immaginari catastrofici, si serve di strumenti inusuali: "I'll take New York" e "Straight to the Top (Vegas)" sono due gemme di pop sinfonico, sgembo e swingante, quasi una vampiro che coverizza Frank Sinatra suonando al contempo solenne e alieno.
La fuga, la liberazione però sono destinate a rimanere un sogno: "Innocent When You Dream" regala il momento più toccante, è un walzer tenerissimo, sia nella versione da camera che in quella blues.
La verità è che il mondo reale ci aspetta, il negozio sotto casa sarà ancora una volta l'allegro scenario destinato a confortarci o a farci definitivamente a pezzi. Ci attende un impatto violento con la Terra ("Cold Cold Ground"). Neanche l'incubo asfitticamente esotico di "Telephone Call from Instabul", con le sue sonorità mediorientali e con il sassofono contorto, porta un po' di serenità.
Frank è uno dei tantissimi e insignificanti Nessuno della nostra terra, ed è incredibile che Tom abbia saputo iniettare questa calda poesia dentro un personaggio tanto perverso e povero (da ogni punto di vista). Agghiacciante e bellissimo, non trovo altro modo per descrivere questo incontro notturno con i suoi Anni Selvaggi.
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