Faust
Faust
Il grande merito di quel movimento musicale bollato da noialtri col termine un po’ sprezzante “kraut-rock” è stato, ovviamente, quello di promuovere un nuovo modo di fare musica. Ma, al di là di questo, i grandi gruppi del rock tedesco degli anni ’60 e ’70 hanno avuto la geniale intuizione di spingere in territori nuovi la relazione tra l’aspetto fisico della musica, quello cioè legato alla percezione dei suoni, e l’aspetto psicologico e sociale della stessa. In poche parole, più che rivoluzionare il modo di fare musica, i kraut-rockers (se così possiamo chiamarli) hanno stravolto il modo di ascoltarla, colpendo l’organo che raccoglie i suoni (l’orecchio) per depistare l’organo che li trasforma in sensazioni (il cervello).
Tra questi gruppi, i più rivoluzionari, iconoclasti e innovatori (nel senso che abbiamo visto sopra) sono stati molto probabilmente i Faust, con il loro primo e omonimo disco. In quest’opera viene compiuta una magniloquente operazione di sperimentazione, e tutto viene spinto all’ennesima potenza: il collage in stile Frank Zappa, il rumorismo dei Velvet Underground, alcune digressioni psichedeliche del rock più acido, la componente teatrale del rock, il sinfonismo tedesco, il titanismo distruttore dei compositori elettronici tedeschi (Karlheinz Stockhausen in testa), il senso di terrore, nevrosi e disgregazione della società industriale (poi leit-motiv della new wave di Pere Ubu, Television, Suicide eccetera) e via di questo passo.
L’album è suddiviso in tre lunghi brani. Dal primo all’ultimo istante la sensazione è quella di subire un attentato al proprio orecchio, e a tratti la musica sembra non avere alcun senso, mentre invece tutto ha un proprio messaggio, preciso e inequivocabile.
Si parte con un fischio assordante, sotto il quale si percepiscono alcune note di “All You Need is Love” dei Beatles e “Satisfaction” degli Stones. Questo è il primo messaggio: i Faust vogliono decapitare la musica così come siamo abituati ad ascoltarla, sia essa rassicurante come le melodie beatlesiane, sia essa trasgressiva e lasciva come quella dei Rolling Stones. Non si tratta di scegliere tra melodia e ritmo, tra volgarità e perbenismo, tra bene e male: i Faust dichiarano guerra all’orecchio. Vogliono far uscire di testa l’ascoltatore, distruggendo i suoi normali parametri. Perché, qualsiasi tipo di musica noi ascoltiamo, la ascoltiamo sempre con quei parametri. E quei parametri ci portano a determinate percezioni, che a loro volta impongono al cervello di ragionare in una precisa maniera. Era il ragionamento della pittura cubista, astratta e dadaista, se ci pensiamo: basta sottrarre l’orecchio e sostituirlo con gli occhi. Si potrebbe parlare per ore soltanto di questo fischio.
Ma “Why Don’t You Eat Carrots?” comincia a destrutturarsi con delle voci quasi militari, alcune note di pianoforte sconnesse e saltellanti, che poi avviano un jazz rock zappiano, da parodia (le chitarre come pernacchie, i fiati saltellanti e circensi…). Stop: voci demoniache si rincorrono e bloccano la marcia. La marcia riprende, lineare e malata: non si capisce se abbia un senso o se invece sia totalmente caotica. La tromba fischietta un motivetto subito ripreso dalla chitarra che fa la boccaccia, le percussioni seguono con tintinnii metallici e sullo sfondo ci sono folate di vento lavico. Entra un coro da internati in un manicomio, mentre si susseguono fischi, rumori di ogni tipo, radiazioni. L’orecchio non sa su cosa soffermarsi, si aggrappa alla melodia farsesca del tema principale, continuamente masturbato dai rumori, dai sibili, dai pagliacci assassini travestiti da musicisti. Poi resta solo rumore. Dopo va via anche il rumore e restano i soliti sibili, qualche tintinnio, una conversazione quotidiana tra due persone; riparte anche il tema principale, che si ferma subito, e allora ecco di nuovo rumori insopportabili, e una fugace linea di piano. A cosa serve tutto ciò? È presto detto: l’orecchio non capisce più nulla, e non sa cosa trasmettere alla psiche. Il cervello perde il contatto con la realtà: lo scopo è raggiunto, e allora la cerimonia può andare avanti con “Meadow Meal”.
Il secondo brano comincia con rumori elettronici, qualche soffio dai geyser dell’inferno, una specie di catena di montaggio che lavora chissà a che cosa. Suoni casuali si inseriscono qua e là. Arriva il solito e assordante sibilo, e poi parte una chitarra quasi flamenca a sorreggere una linea vocale che non riesce a restare melodica nel senso classico per più di qualche secondo, perché sussulta continuamente, con dei botta e risposta che lasciano infine il campo ad un’avvolgente jam blues-rock con le solite chitarre spernacchianti.
La jam si chiude e riparte il tema iniziale, con il suo inquietante arpeggio; rumori assortiti, pioggia post-atomica; qualche nota di organo in stile colonna sonora rallegra il paesaggio, con il classico trucco della musica quando vuole violentare l’ascoltatore: lo tranquillizza per colpirlo alle spalle.
E la coltellata arriva, inevitabile, con “Miss Fortune”. Quasi diciassette minuti. Si parte con un tema molto kraut rock: percussioni ossessive, chitarra acida e sconnessa, il synth che massacra tutta la jam, i rumori ondeggianti e assordanti. La catastrofe, però, è appena cominciata. Qualche rintocco di piano e di chitarra ci fornisce pochi appigli, ai quali ci avvinghiamo come ad una roccia fin quando arriva il classico piede che calpesta la mano. Termina la jam: siamo precipitati chissà dove. Rintocchi di triangolo oscuri sembrano evocare le campane prima che passi la processione. Altro rumore. Piatti. Poi arrivano voci a metà strada tra il malato terminale e lo scemo del villaggio, accompagnate da un po’ di pianoforte. La voce acquista eco e una batteria la sostiene pigramente e sconnessamente. Si aumenta di ritmo e, piano piano, è inevitabile arrivare al caos, che dura per qualche minuto, poi si spegne lentamente e lascia spazio a un coro di morti.
Rumore assortito, assemblato casualmente.
Entrano, infine, due voci che parlano tra loro, alternando una parola a testa su una chitarra monotona e triste. “Are We Supposed To Be Or Not To Be?”, si domandano le due voci. E concludono il loro excursus filosofico stabilendo che “nobody knows if it really happened”. Nessuno sa se è davvero accaduto. Infatti, sollevate le cuffie, e riacquistato il normale uso dell’orecchio, si percepiscono i soliti rumori: un’auto che passa, una voce che chiama qualcuno, il televisore che chiacchiera nell’altra stanza. L’orecchio è vivo, sta bene. Ma nessuno sa se la sua morte sia accaduta davvero.
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