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R Recensione

8/10

Mark Lanegan

Bubblegum

Il tenebroso Lanegan, arrivato al sesto album cerca di variare il suo stile con un parziale ritorno alle origini (Screaming Trees), ma aprendosi contemporaneamente alle influenze di vari generi (industrial, noise) nel tentativo di variare il canonico folk rock che lo ha portato a capolavori come The Winding Sheet e Whiskey For The Holy Ghost. Nell’eseguire l’opera Lanegan si permette di ospitare pezzi da novanta come Greg Dulli (Afghan Whigs e Twilight Singers), Duff McKagan, Izzy Stradlin (Guns and Roses) e PJ Harvey.

Quel che ne esce è un risultato ancora una volta eccellente, che però mantiene solo in parte la promessa di un cambiamento stilistico: traspare infatti una certa dicotomia che tende a dividere le desolanti ballate (tipiche di Lanegan) dai pezzi più tirati e aggressivi, in cui il cavernoso cantautore torna a vestire i panni di un puma incattivito. Cominciamo dai pezzi “morbidi”, con l’introduttiva When Your Number Isn't Up: classico lento funereo in cui a fronte di uno stile scarno e essenziale risalta la timbrica solenne di Mark. Uguale struttura viene ribadita in One Hundred Days, Bombed (folk d’autore alla Nick Drake) e Strange Religion, particolarmente dolce e romantica, dall’inizio pericolosamente reminiscente la Everybody Hurts dei R.e.m.. Più ispida e cupa è invece Wedding Dress, in cui Mark si trasforma in Tom Waits.

A seguire il filone il passionale duetto con PJ Harvey di Come To Me, sostenuto da una cadenzata batteria e poche esili note di chitarra mentre chiude il cerchio l’atmosfera idilliaca (quasi una ninna nanna) di Morning Glory Wine.

A contraltare di tutto ciò i momenti più devastanti: cioè Hit The City (di nuovo con PJ Harvey), un brano semplicemente rock’n’roll, aggressivo al punto giusto con un riff durissimo a fare da traino costante. C’è poi Methamphetamine Blues: suoni martellanti a immergere in un panorama quasi industrial su cui viene calato uno splendido assolo stoner.

La grande poliedricità e voglia di fare di Mark vengono mostrate in Sideways In Riverse e Can't Come Down: rock sporco e lascivo dalle vaghe reminiscenze punk e noise, innestate un ritmo serrato ebbro di distorsioni elettriche. Il brano più vibrante ed energico sembra però essere Driving Death Valley Blues, in cui si sente fortissima l’influenza del tempo trascorso presso i Queens of the Stone Age.

Al di fuori di questi due grossi blocchi stilistici resta una manciata di pezzi: Like Little Willie John è un ritorno al country blues già affrontato saltuariamente nei dischi precedenti. Head è un’altra ballata, ma dalla struttura più anarchica, mentre Out Of Nowhere è la splendida chiusura di un disco a tratti devastante: inizio in sordina e incedere coinvolgente con arie latineggianti e uno splendido assolo d’annata.

Difficile allora trovare cadute di tensione in un album quanto mai variegato, che non annoia mai, e in cui traspare netta la sensazione di assistere al raggiungimento dell’apice creativo per il cantautore di Seattle, capace di mantenersi ad elevatissimi livelli creativi da più di dieci anni (e parliamo della sola carriera solista).

V Voti

Voto degli utenti: 7,9/10 in media su 11 voti.
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Vikk 7/10
george 8/10
REBBY 7/10

C Commenti

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Vikk (ha votato 7 questo disco) alle 14:49 del 2 novembre 2007 ha scritto:

bello, ma deludente (rispetto al passato)

il disco meno bello della carriera solista di Lanegan con variazioni stilistiche pericolosamente schizofreniche ed un mix davvero terrificante di ospiti (PJ Harvey e Duff McKagan o Greg Dulli e Izzy Stralin) pericolosamente alla QOTSA (nel senso peggiore del termine in termni di amalgama)

Roberto_Perissinotto (ha votato 9 questo disco) alle 19:34 del 25 marzo 2011 ha scritto:

A me quasi tutti i pezzi sembrano eccellenti, anche quelli più semplici.