Feist
Metals
Leslie Feist è una donna che va oltre le apparenze. Una che si prende tranquilla il suo periodo di pausa, più lungo della media dei governi italici, senza farsi inquinare dall’ansia dell’improvvisa ribalta. Qualità da mosca bianca in un bazaar discografico di nani e ballerine che crede pitchforkianamente cool dare asilo politico alle scemenze di Chris Martin. Lei invece la notavi subito nel mucchio di cantautrici venute fuori dal maelstrom-indie del Duemila, per una classe innata e priva di fronzoli, un allure spontaneo che avresti riconosciuto anche trovandotela dietro la cassa del discount all’angolo. E vatti a fidare di certe commesse che sotto il camice annoiato dell’ordinarietà nascondono più sorprese d’una diva-burlesque. Feist non aveva bisogno di sgomitare, quella silhouette ossuta e volitiva non perdona a prescindere perché “ha tutte le carte in regola” e molte ragioni per farsi amare. Prendete la meravigliosa astrazione a mo’ di collage-hippy sulla copertina del quarto album “Metals”, guardatela bene nei suoi tratti bicromatici (scelti con un concorso tra fan sul sito web) e ditemi se è così complicato innamorarsi dell’arguto disincanto di codesta artista. Non inganni però l’acume compositivo e grazia intellettuale, la smilza signorina è tipa tosta nonostante l’aspetto carezzevole e una voce di velluto da seratina soft-porno. Passati gli abbagli lounge-soul di “Let It Die” e l’intricata-intrigante eleganza che sosteneva l’acclamato “The Reminder” la canadese nata ad Ahmerst prosegue la sua testarda idea autoriale tornando alla nuda polpa elettro-acustica del miglior pop-folk anni ’70, rivisitato dentro il retrogusto dolceamaro dei nostri giorni.
“Da grandi poteri derivano grandi responsabilità” diceva il vecchio saggio, ricordate? L’eterno adagio peterparkeriano ben si adatta alle aspettative che hanno accompagnato l’uscita di “Metals” a quattro anni da “The Reminder”, il classico botto che centrifuga una carriera e ti fa uscire dal protettivo recinto indie-pop con (impensabili) vendite multiplatino e un virale product-placement che spalma implacabile il tuo talento adesivo su spot tv e suonerie-chic. Potenza di qualche irresistibile filastrocca in punta di piedi (“One, two, three, four…Tell me that you love me more…”) e dello spietato marketing pubblicitario che c’infilza i neuroni stressati di appiccicosi ritornelli per qualche I-pod o smartphone in più. Certe affinità spirituali bacharachiane, filtrate da una sensibilità tanto elusiva quanto figlia del presente, facevano poi il resto: innamorarsi di Feist e delle sue morbide melodie colorate di tenue introspezione è come catapultarsi attraverso tanti piccoli fotogrammi di romantiche colazioni sulla Fifth Avenue con Audrey o in un bistrot parigino ad aspettare ex poliziotti falliti.
“Metals” conferma e rilancia la non comune cifra stilistica dell’autrice di “I Feel It All”, quello sfuggevole e docile equilibrio a lato tra la sofisticata discrezione delle maestre Joni Mitchell-Carole King e la contemporaneità alt-folk di Cat Power, intrecciate alla bruma sentimentale dell’indie-rock irrequieto e sperimentale dei vecchi compagni d’avventura Broken Social Scene. Confrontato alle sapide melodie catchy che facevano dell’osannato album del 2007 uno scintillante prontuario d’intimismo-canzonettaro “Metals” mira a una essenziale neo-classicità che affonda le radici dell’arbusto pop nella limpida tradizione “americana”, e la riveste con il gusto post-modernista come usava il Sufjan Stevens enciclopedico-geografico, intagliandola nei legni stagionati di corde acustiche, aperture corali accompagnate da seducente elettricità-bluesy, fascinosi esercizi art-pop e fiati che spuntano qua e là epici fra cinematografiche cornici orchestrali (ecco a cosa allude il titolo, “metalli”). In questa dozzina di manufatti d’alto artigianato alt-country c’è un approfondito e raffinato cesello di scrittura, scandito con pregevole cura sotto la supervisione del producer islandese Valgeir Sigurosson, di Brian LeBarton e dei consueti collaboratori Mocky e Chilly Gonzales negli studi della turistica Big Sur e a Toronto, sono acquerelli delicati che scaldano languidi nel freddo buio invernale come la cara, affettuosa, inseparabile coperta di Linus. Forse è già una ragione sufficiente per promuovere a pieni voti “Metals” e la piccola-grande donna che l’ha concepito. L’inconfondibile “F” di Feist colpisce ancora, e guarda all’orizzonte folk-rock con rinnovata ambizione e caparbietà made in Canada. “…Cold outside, warm by the fire…Get it wrong…Get it right…”
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