V Video

R Recensione

7/10

Get Cape Wear Cape Fly

The Chronicles Of A Bohemian Teenager

Subito delle precisazioni: Sam Duckworth è poco più che un teenager (ha 22 anni: si può dire che sia già un ometto) e viene dall'Essex; è probabile che sia un bohemien, ma è anche possibile che si autodefinisca tale per conferirsi quell’aria maledetta che risulta sempre tanto misteriosamente fascinosa; le sue cronache si risolvono, piuttosto che in un diaristico reportage sulla vita dissoluta di una rock star, in piccate ribellioni contro le distorsioni e le ingiustizie di ogni giorno. Intenti sociali, dunque, che vanno poco di moda, ma che qui convincono, al di là di alcuni movimenti ingenui che effettivamente puzzano un po’ troppo di teen spirit, ma che proprio perciò risultano sani e perdonabili.

Il nome d’arte, invero orribile, che il generoso Duckworth si è scelto è anche quello di una canzone del disco e proviene dalla soluzione che una rivista aveva proposto per risolvere un videogioco di Batman, il che magari può sembrare collimante alle generazioni più matusa con le intenzioni civili del disco, ma tant’è. Anzi, meglio: meno settarismo, aria nuova, nuove prospettive, nuovi bersagli. Ed è curioso scoprire quali (i reality tv, ad esempio).

Duckworth suona folk. Non bisogna pensare, tuttavia, al lo-fi di un Bright Eyes o alle atmosfere epiche dei Decemberists o alle malinconie degli Okkervil River. È un folk ripulito, colto, con ritmi a tratti lounge (si senta “An Oak Tree”), dalle sonorità estremamente dilavate, limpide, un folk sempre movimentato, che non ricusa il ricorso a organetti, tastiere e rinforzi ritmici elettronici (stile John Vanderslice, per restare negli States. Poco di inglese in Duckworth).

Le melodie entrano dirette, con effetti quasi pop (esempio: “I Spy”, in cui non a caso si parla di “song with a simple tune”). Pop di qualità, si intende, dettato dal ritmo sempre incalzante degli arpeggi acustici, che fanno tamburellare le mani sul volante se si è in macchina o muovere su e giù la testa se si è al bancone di un bar, anche quando la strumentazione si riduce alla sola chitarra (“Lighthouse Keeper”).

Duckworth è simpatico. Per quella faccia tra il pacioccoso e l’esotico. È simpatico perché si prende sul serio, ma non troppo, e perché intitola un pezzo “If I Had A Pound For Every Stale Song Title I’de Be 30 Short Of Getting Out Of This Mess”). Lo è perché nella brevità di questi dodici pezzi perde raramente la bussola, non si lascia attrarre dalla noia di certe prediche musicali, tiene sempre a tiro la cantabilità (con effetti spesso da coro di gruppo, vedi la sua omonima “Get Cape. Wear Cape. Fly”). Musica che sa di gente, di metropoli, senza solipsismi. Menzione per “Whitebrash Is Brainwash” e “Call Me Ishmael”, splendidamente arrangiata quest’ultima, con archi, flauti, trombe e un ritmo trascinante.

Disco fresco, perché è un disco da manifestazione e assieme da concerto, con passaggi che se possono essere retorici nei testi, non sembrano esserlo a tavolino. Finalmente Albione confeziona qualcosa di diverso. Che convince, forse, proprio perché non confezionato affatto.

V Voti

Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5

C Commenti

C'è un commento. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Marco_Biasio (ha votato 8 questo disco) alle 15:25 del 6 giugno 2007 ha scritto:

Beh... sì.

Concordo fondamentalmente con tutto quello che dici. Prodotto fresco ed ispirato, anche se l'ho ascoltato una sola volta.